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Nuovi Italiani – I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?

a cura di in data 16 Settembre 2009 – 18:30

nuovi_italianiGianpiero Dalla Zuanna, Patrizia Farina, Salvatore Strozza, Nuovi Italiani- I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, Il Mulino 2009 pp.170

Recensione a cura di Maria Cristina Mirabello

Il discorso sull’altro da noi, complesso e difficile sempre e più che mai attuale oggi, necessita di conoscenza, di scelte a carattere politico etico culturale ed interventi adeguati alla complessità delle questioni.

Gli autori di Nuovi Italiani – I giovani immigrati cambieranno il nostro paese? ci aiutano a conoscere un importante aspetto che riguarda appunto l’altro da noi. Essi dicono “A metà del 2009, in Italia vivono 900 mila stranieri con meno di 18 anni, 600 mila in più rispetto alla metà del 2001, appena otto anni fa”[1] e aggiungono che proprio di questi ragazzi si occupa la ricerca pubblicata “mettendo a confronto le loro speranze e le loro possibilità con quelle dei coetanei italiani appartenenti alle diverse classi sociali.”[2] Una ricerca vera e propria dunque, che contribuisce ad aiutare una conoscenza basata non su stereotipi ma su un’analisi puntuale ed attenta i cui parametri di riferimento vengono esplicitati con nettezza affinché il lettore, debitamente informato, possa valutarli[3].

Filo rosso che sta alla base della ricerca è, come dichiarano significativamente gli studiosi, questa serie di interrogativi “Al di là dei presupposti ideologici e degli intenti pedagogici, quale tipo di integrazione stanno vivendo i figli degli immigrati? La società italiana sta orientandosi in senso interculturale? Oppure prevale uno degli altri due modelli (assimilazione o multicultura)? I ragazzi stranieri stanno cumulando una dote sufficiente di capitale umano e sociale per giocarsela alla pari, o almeno per non essere troppo svantaggiati rispetto ai loro coetanei figli di italiani?”[4] .

Gli ambiti fondamentali trattati sono: la formazione della vita di relazione, la costruzione dell’identità, le differenze di genere, la casa e la famiglia, i risultati scolastici”esaminati però alla luce di “quattro differenze principali: fra italiani e stranieri, fra paesi di provenienza, fra classi sociali e secondo il tempo di arrivo in Italia.”[5]

I risultati che ne escono e che non possono certo essere ridotti a poche righe sono assai interessanti e, per molti aspetti, tali da spiazzare chi si limita a facili stereotipi: spesso, tirate le somme, il ragazzo straniero è molto più simile per aspirazioni a quello italiano o comunque meno diverso e perfino molto più “moderno” di quest’ultimo. Ad esempio i ragazzi stranieri socializzati in Italia sono molto più simili ai loro coetanei italiani di pari ceto sociale che ai propri connazionali giunti in Italia più grandicelli, e ciò sia per gli aspetti riguardanti i consumi che per quelli riguardanti il modo di sentirsi e pensare. Quanto alle ragazze straniere, esse hanno una visione della donna molto più moderna rispetto a quella delle coetanee italiane.

La scuola, nodo di molti nodi, pur svolgendo un’encomiabile opera di socializzazione e integrazione e pur essendo caratterizzata da iniziative volenterose e intelligenti, manca però al momento di piani di intervento organici e di ampio respiro. Essa risulta perciò perpetuare da una generazione all’altra differenze sociali che, radicandosi su quelle precedenti, determinano la cattiva riuscita dei giovani stranieri i quali, se non riusciranno a conseguire grazie ad una adeguata scolarizzazione, posizioni migliori di quelle dei loro genitori, rischiano di diventare un serbatoio oppositivo e antagonistico. Insomma la “scuola non colma il gap di capitale umano rispetto ai giovani italiani, così come non colma le differenze fra italiani appartenenti alle diverse classi sociali.”[6]

E’ proprio questo l’aspetto più delicato della questione, anche perché il libro mette in evidenza come i giovani figli di stranieri siano in genere divorati dal desiderio di farsi strada ed integrarsi nella società italiana: non esiste insomma una cattiva immigrazione che riguarderebbe l’Italia in quanto concentrata sugli strati lavorativi più umili perché, come dicono gli autori, “la meglio gioventù’ di tutto il mondo viene spontaneamente selezionata e forgiata dalle fatiche delle migrazioni e, in un certo senso, viene ‘regalata’ alla società italiana. ” [7].

Da qui l’importanza strategica della scuola che deve accogliere, sostenere, preparare, formare e la necessità di una forte attenzione verso di essa onde evitare i processi di downward assimilation, e cioè le modalità di integrazione negativa osservate e definite da Portes e Rumbaut nei giovani figli di immigrati che stanno nelle periferie urbane degli Stati Uniti, modalità che determinano alti indici di criminalità anche fra i figli di immigrati in molti paesi europei.

La scuola italiana oggi, come trenta o cinquanta anni fa, richiede invece”capacità di studio personale, da svolgere al pomeriggio, al di fuori della scuola. E, oggi come allora, chi non ha una famiglia alle spalle è fortemente svantaggiato, perché non ci sono sistematici programmi per recuperare lo svantaggio iniziale, simili a quelli attivi, ad esempio, in Svezia e in Australia. In aggiunta, i giovani figli di stranieri- oltre a condividere lo svantaggio competitivo con i figli di italiani delle classi sociali più sfavorite- debbono superare ulteriori ostacoli, più direttamente legati alla loro condizione di immigrati. Non è un caso se anche i giovani stranieri che terminano le scuole medie inferiori con buoni risultati tendono a intraprendere cicli scolastici brevi, volti a favorire un più rapido inserimento sul mercato del lavoro.”[8]

Tale situazione non smentisce l’ipotesi di una marginalizzazione dei giovani stranieri che, con il tempo, potrebbe dar luogo a devianza ed antagonismo. Da qui la necessità di studiare in modo più approfondito il problema, tenendo anche conto del fatto che ragazzi apparentemente sfavoriti potrebbero avere migliori chance di riuscita sociale a seconda della nazionalità di provenienza: ad esempio i ragazzi romeni, albanesi, cinesi hanno un basso numero di fratelli, a differenza dei loro coetanei provenienti dal Marocco e da altri paesi africani. D’altra parte alcuni ragazzi di estrazione sociale più bassa potrebbero percorrere traiettorie di vita economica socialmente vincenti “anche lasciando presto la scuola, specialmente se inseriti in contesti sociali innervati da piccole e medie imprese, come è accaduto nei decenni passati per migliaia di imprenditori e operai specializzati italiani e come appare accadere oggi soprattutto fra i cinesi e gli egiziani.”[9]

Da qui la conclusione degli autori nel capitoletto “Una sfida da accettare”: “I giovani stranieri destano preoccupazioni per alcuni versi giustificate…se non acquisiscono buone dosi di capitale umano… se non hanno a disposizione risorse materiali per raggiungere una posizione sociale migliore dei loro genitori; se non dispongono di un solido capitale sociale”[10] e la necessità prospettata di intervenire perché essi non si integrino nelle parti oscure della società. Infatti “anche in Italia può accadere quanto è già accaduto in Francia, Belgio, Germania, Svizzera e Olanda, dove i figli degli immigrati, in media, commettono più reati rispetto ai loro genitori e ai coetanei autoctoni. D’altro canto, la Svezia dimostra che questo non è un destino ineluttabile: se le disuguaglianze vengono colmate, anche il tasso di criminalità si abbassa”[11]


[1] Gianpiero Dalla Zuanna, Patrizia Farina, Salvatore Strozza, Nuovi Italiani- I giovani immigrati cambieranno il nostro paese? Il Mulino, p.7

[2] Ibidem

[3] In appendice gli stessi autori spiegano infatti diffusamente da dove è nato il libro: alla base di esso sta il primo studio quantitativo, statisticamente rappresentativo a livello nazionale sui figli degli immigrati in Italia, detto Itagen 2. I dati, ricavati da 48 province italiane con intensa presenza straniera e la campionatura relativa selezionata secondo procedure rigorose a livello statistico rispetto a 217.274 alunni italiani e 29.962 alunni stranieri, risultano costituiti dalle risposte di 10.554 ragazzi con almeno un genitore nato all’estero e 10.150 con entrambi i genitori italiani, nati per la grande maggioranza fra 1992 e 1994, e perciò in un’età compresa fra 11 e 14 anni al momento dell’intervista (primi mesi del 2006). Proprio l’ampiezza dei campioni esaminati ha consentito di individuare sia le specificità dei contesti locali, anche perché i percorsi di integrazione sono molto diversi a seconda dei luoghi in cui i ragazzi stranieri vivono, sia le differenze derivanti dai luoghi di provenienza degli stessi ragazzi. Quanto alle domande del questionario esse spaziavano un po’ su tutti gli ambiti della vita di ragazzi preadolescenti, sebbene il libro abbia focalizzato fondamentalmente alcuni settori, ritenuti più importanti per avviare concrete politiche scolastiche e sociali di intervento. I dati sono stati raccolti mediante un questionario, la cui autocompilazione richiedeva circa 40 minuti, somministrato in ambiente scolastico alla presenza di un insegnante della scuola e di un assistente alla ricerca.

[4] Op.cit., p.33

[5] Ivi, p.34

[6] Ivi, p.9

[7] Ivi, p. 9

[8] Ivi,p.135-136

[9] Ivi p.137

[10] Ivi, p.139

[11] Ivi, p.139

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