Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Ripensare il Mediterraneo un compito dell’Europa

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Port&ShippingTech 20 settembre 2013

a cura di in data 24 Settembre 2013 – 12:32

PORT&SHIPPINGTECH

Genova, Centro Congressi Porto Antico
19-20 settembre 2013

AREE DI SVILUPPO PER IL CLUSTER MARITTIMO NAZIONALE:
LE POTENZIALITA’ DEL BACINO DEL MEDITERRANEO

Intervento di Giorgio Pagano
Presidente dell’Associazione Culturale Mediterraneo e dell’Associazione Januaforum

UNIRE MEDITERRANEO E EUROPA
Come non perdere un’occasione storica

I numeri forniti dal Fondo Monetario Internazionale ci parlano della centralità, per l’Italia, del Mediterraneo: l’Italia, con l’Europa, va indietro, mentre le sponde Sud ed Est del Mare Nostrum crescono, nonostante i gravi problemi delle “primavere arabe” e la tragedia siriana. Tra il 2008 e il 2013 il prodotto reale di Nord Africa, Medio Oriente e Turchia è cresciuto di oltre un quarto, e si espanderà di un ulteriore terzo entro il 2018. Entro quell’anno la sponda Sud-Est del Mediterraneo crescerà il triplo dell’area euro. In Marocco e in Turchia c’è meno disoccupazione che in Francia e Italia, per non parlare di Spagna e Grecia. Questo Mediterraneo che cresce è il secondo cliente dell’export italiano dopo la Germania. Nel 2012 le vendite dell’Italia a quest’area sono ammontate ad oltre 40 miliardi e sono cresciute del 12%. Nello stesso anno l’export italiano in Cina e India è calato del 10%. Il Mediterraneo continua inoltre ad essere una meta importante dei nostri investimenti: in Turchia, Nord Africa e Medio Oriente oltre mille imprese partecipate da società italiane occupano più di 80.000 addetti, con un fatturato di 24 miliardi.
Il Mediterraneo è dunque una “nuova frontiera” per le nostre imprese, e una sfida positiva per tutto il Paese. Le potenzialità sono enormi: non solo nel campo dei prodotti energetici, comprese le energie rinnovabili, o del turismo o della cultura; ma anche per incrementare l’interscambio manifatturiero e per sviluppare i trasporti marittimi: oltre il 70% dei flussi commerciali tra l’Italia e i Paesi dell’area Sud (40 miliardi) avviene via mare. C’è poi da approfondire significato ed esiti di una grande trasformazione in corso: l’ingresso sul mercato dello shale-gas americano, estratto dalle rocce del sottosuolo, destinato a cambiare in tempi brevi molte cose. Il costo del gas sarà presto, per gli Usa, del 70% inferiore a quello europeo. L’Europa non potrà importare lo shale-gas americano, perché troppo costoso. Ma ci sarà una riduzione del prezzo del gas “normale”. La prospettiva dell’alleanza con la sponda Sud del Mediterraneo è quindi obbligata. E ci spinge a non disperdere la nostra capacità manifatturiera di trasformare le sue materie prime.
Il Mediterraneo, quindi, è essenziale per potenziare tutta la nostra economia, compreso il cluster marittimo nazionale. Per ciò che riguarda lo specifico settore della portualità, occorre che il Mediterraneo non disperda la sua acquisita centralità nel mondo, e che il nostro cluster sia sempre più centrale nel Mediterraneo. Il Mediterraneo è cresciuto di importanza grazie soprattutto agli aumenti dei traffici provenienti dall’Estremo Oriente. Il primato assoluto è rimasto tuttavia ai porti del Nord Europa, svantaggiati geograficamente ma più efficienti. Più capaci, cioè, di offrire migliori tariffe, servizi, tempi agli utenti finali stranieri e anche in parte italiani, per motivi connessi innanzitutto ai servizi logistici e al trasporto intermodale. Gli effetti della crisi economica mondiale sul commercio e sui flussi di merci si sono riverberati anche sulla portualità mediterranea, compresa quella italiana: la portualità non può non soffrire della più generale sofferenza economica dell’eurozona. Occorre quindi interrogarsi sugli obbiettivi per recuperare progettualità e competitività della portualità italiana, nell’ambito di una strategia tesa a mantenere e a sviluppare il ruolo conquistato dal Mediterraneo nel mondo.
Senza nessuna visione autoreferenziale del mondo della portualità, il nodo è come si esce dalla crisi economica. Il nodo è il modello di sviluppo complessivo, che deve essere “sociale” e non “darwiniano”. Ma c’è una specificità della portualità italiana: il problema principale è che in Italia manca una sede nazionale di discussione sulle riforme da fare, e che i Governi hanno fatto ben poco per rendere efficiente il sistema. Servono investimenti, infrastrutture di collegamento con l’Europa, alleanze nel retroterra della logistica, ferrovie che funzionino, procedure doganali semplificate, autonomia finanziaria dei singoli porti. E servono coordinamento e programmazione: non ha senso proporsi di espandere tutti i porti e di dragare tutti i fondali per poter ospitare le grandi navi. C’è materia per una riflessione strategica, come quella suggerita da Sergio Bologna: in Italia abbiamo sei porti di media grandezza nell’Adriatico e otto nel Tirreno, più quelli delle isole. Dispersione degli investimenti, dispersione della merce, mercati di origine/destinazione che non superano le Alpi (tranne il porto di Trieste). L’Olanda e il Belgio servono l’Europa intera con due porti ciascuno, la Germania con tre. La riflessione è necessaria: anche se non ci fosse una diminuzione dei trasferimenti di merci lungo la rotta Oriente-Occidente e dunque il Mediterraneo restasse centrale. Perché non avrebbe comunque senso cercare di accogliere in tutti i nostri porti le grandi navi. Non saremmo in grado di fare gli investimenti necessari, in mare e soprattutto a terra. Bisogna dunque scegliere i pochi porti su cui puntare, e concentrarci su come essere più efficienti nelle tecnologie e nell’organizzazione. Se molte aziende della pianura padana si appoggiano sui porti del Nord Europa, vuol dire che i nostri porti pagano la frammentazione e la minore efficienza.
Sono questioni centrali, su cui manca la discussione, e anche la sede della discussione. La programmazione nazionale è scomparsa, dappertutto e anche nella portualità. E’ totalmente assente nella discussione sulla legge di riforma dei porti. Altrove non è così. In Spagna, per esempio, dove esiste un sistema pluriportuale simile a quello italiano, esiste un soggetto che coordina centralmente i programmi e gli investimenti. Da noi, invece, il Ministero dei Trasporti si limita ai controlli formali. La programmazione dovrebbe portare alla redazione di un masterplan nazionale, capace di evitare doppioni, sovrapposizioni e sprechi di risorse. La “regia” nazionale dovrebbe essere accompagnata dalla creazione di sistemi integrati nei quali far confluire i porti che agiscono in un medesimo bacino. In questo quadro si potrebbe pensare, per quanto riguarda la Liguria, a un piano regolatore portuale regionale o addirittura del sistema dell’Alto Tirreno.
Nel Mediterraneo, inoltre, la riflessione deve riguardare le relazioni tra i porti delle due sponde, Nord e Sud, alla luce del crescente ruolo dei porti della sponda Sud. Di fronte allo sviluppo nordafricano ha ancora senso investire nei porti italiani di transhipment (da nave a nave)? Ancora: come collaborare con i porti nordafricani, sapendo che in essi sono stati fatti quei grandi investimenti che finora da noi sono mancati? Deve esserci solo competizione, o può esserci una partnership basata su una distinzione dei ruoli? La direzione giusta è quella della partnership: la chiave sta nell’Europa, nella sua capacità di pensare e di realizzare il corridoio Europa-Africa, una sorta di rete Ten-T transcontinentale, di cui l’Italia dovrebbe essere punto di riferimento fondamentale.
Ultima e decisiva considerazione: se vogliamo sviluppare le potenzialità del Mediterraneo l’economia deve fare la sua parte, ma serve anche e soprattutto che la politica faccia la sua. Il riferimento non è solo alla politica economica e di settore. C’è una limitazione più generale della politica e della cultura italiana ed europea che va superata. In Italia non solo la politica estera, ma l’intera dimensione internazionale dei problemi è stata cancellata dal dibattito politico e dall’iniziativa dei partiti. E questo mentre si ripete incessantemente la parola “globalizzazione”. Ma non esiste nemmeno una politica estera europea. Dentro questa limitazione più generale, c’è una limitazione particolare, ma importantissima perché contribuisce a spiegare quella più generale: l’incomprensione che la nuova, nevralgica, frontiera dell’Europa non è più l’Est ma è diventata il Mediterraneo. Non rendersi conto di questo aspetto condanna a non avere una politica estera europea. Esiste cioè un nesso strettissimo tra la crisi dell’Europa e la mancanza di uno sguardo al Sud, alla frontiera mediterranea. La questione è quella di un crescente distacco dell’Europa -della Mitteleuropa in particolare- dal Mediterraneo e dai Paesi che vi si affacciano. Fino all’idea che l’Europa possa fare a meno di Grecia, Italia, Spagna. Occorre recuperare una cultura europea condivisa e il riconoscimento di eguali radici, ridare cioè all’Europa un’idea di se stessa di cui il Mediterraneo sia parte integrante: il Mare Nostrum è l’identità stessa dell’Europa. Il continente vive la dimensione mediterranea come qualcosa da cui difendersi o da usare come difesa, mentre dovrebbe avere, al contrario, l’idea di unire le due sponde, dando così speranza sia a se stesso che al Mediterraneo. Dovrebbe puntare, senza più tentazioni neocoloniali, alla comunità euro mediterranea, per fare diventare la sponda Sud, da “emergenza”, “opportunità”.
Ecco perché l’Europa deve accompagnare e incoraggiare di più le transizioni in corso nei Paesi arabi, cioè insieme sostenerle e condizionarle, contro ogni fondamentalismo e autoritarismo. Le “primavere”, più o meno sfiorite, appassite, agitate, sopravvivono. A volte agonizzano, ma poi hanno sussulti di dignità, e si riprendono. Il problema è che hanno bisogno di tempo. Anche le nostre democrazie hanno avuto bisogno di tempo. La rivoluzione francese ha impiegato 82 anni, un biennio di terrore, due colpi di stato e tanta restaurazione prima di imporsi come archetipo democratico. La monarchia assoluta inglese è diventata quella costituzionale dopo 60 anni di tormenti e una guerra civile. Le “rivoluzioni di velluto” dopo la caduta del Muro di Berlino restano del tutto incompiute. Viviamo in un’epoca dominata dalla velocità, ma le idee e le culture per passare dalle dittature a forme più democratiche non maturano con la velocità di Internet. Anche se la lentezza provoca sangue e dolore. Dobbiamo quindi vedere gli eventi in prospettiva: le “primavere” sono lunghi processi di transizione, non lineari e ancora più complessi che altrove per motivi culturali e religiosi, per la fragilità di questi Paesi, alcuni dei quali sono delle costruzioni post coloniali (si pensi alla Libia). Sostegno e condizionamento vuol dire nessun rimpianto per i dittatori; nessun pregiudizio sulla incompatibilità strutturale tra Islam e libertà (nonostante il fallimento dell’Islam politico in Egitto); disponibilità economico-finanziaria; impegno a difendere e ad aiutare le forze democratiche, la società civile emergente e il suo senso di empowerment. Sostegno e condizionamento sono le parole chiave per l’Europa anche in Medio Oriente, in particolare nei confronti di Israele.
Anche la tragedia siriana richiede una nuova visione. Come ha scritto Sergio Romano in un editoriale dal titolo significativo, “Il Mediterraneo dimenticato”, l’Europa in questa regione deve vedere non solo il conflitto tra tiranni e democratici, ma anche quelli tra laici e islamisti, tra musulmani moderati e musulmani fanatici, tra sunniti e sciiti. Quest’ultimo conflitto, che dura da oltre 1300 anni, oggi è esploso, e ha il suo centro in Siria. Con la guerra in Iraq Bush e i suoi ideologi hanno fatto gli apprendisti stregoni: portando al potere la maggioranza sciita, hanno spinto per l’alleanza tra Iraq e Iran, rafforzando quest’ultimo, già alleato con la Siria di Assad. Ma tutto il terrorismo islamista è sunnita: non c’è mai stato un solo sciita tra gli attentatori. Al-Qaeda è nemico nostro, ma anche dell’Iran. E chi la finanzia? Le monarchie petrolifere del Golfo: gli emiri sunniti, amici dell’Occidente, non gli ayatollah. Ora a Teheran c’è il Governo più dialogante che ci si possa augurare… Cosa si aspetta a fermare Assad con il negoziato, coinvolgendo l’Iran? E’ possibile fermare la guerra civile siriana (evitando un nuovo Afghanistan), la minaccia nucleare iraniana e il terrorismo di Al-Qaeda solo mettendo intorno a un tavolo tutte le parti interessate, l’Iran sciita come l’Arabia Saudita e la Turchia sunnite. E’ arrivato il tempo di ridefinire l’equilibrio di forze in questa regione, con una forte iniziativa internazionale che promuova una conferenza di pace. La guerra sarebbe drammaticamente sbagliata, la soluzione è solo politica.
Occorre, infine, prevedere una nuova cornice istituzionale euro mediterranea: l’Unione per il Mediterraneo è fallita, serve uno scatto di creatività dell’Europa per associare sempre più la sponda Sud.
In conclusione: il Mediterraneo sarà centrale per il nostro futuro se sapremo unire politica ed economia, cooperazione politica ed investimento economico, “diplomazia dei diritti” e “diplomazia degli interessi”. Se faremo prevalere la logica della convenienza a scapito di quella della coerenza con i valori democratici, perderemo credibilità in un mondo che nutre in noi molte aspettative. E non perseguiremo né i nostri interessi né gli interessi della sponda Sud, che oggi coincidono più che mai. E’ un’occasione storica da non perdere.

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