L’ alternativa mediterranea di Franco Cassano e Danilo Zolo
Il Mediterraneo può essere pensato come un “grande spazio”, una risorsa strategica e un luogo di cooperazione privilegiato. Una condizione perché questo possa accadere è ripensare il rapporto tra il processo di unificazione dell’Europa, la sua appartenenza all’emisfero occidentale, le sue radici mediterranee e la sua relazione con il mondo islamico. Alcuni dei temi trattati: l’esportazione della democrazia, i media, l’associazionismo civile nel Mediterraneo arabo-islamico, la mobilità migratoria, l’assedio militare, la questione palestinese, i diritti delle donne e il femminismo islamico, la questione penitenziaria, Europa e mondo islamico, il costituzionalismo.
L’alternativa mediterranea di Franco Cassano e Danilo Zolo
di Francesca Borri – 31/05/2008
Nelle sue lezioni americane, Italo Calvino avrebbe voluto parlare della leggerezza. Perché osservava il movimentato spettacolo del mondo, e cercava un’agilità di scrittura che sapesse raccontarlo, e così, scattante, dinamico riconsegnarlo: ma a volte quasi gli sembrava che tutto stesse diventando pietra, e niente più sfuggisse all’inesorabilità di sguardo della Medusa: e l’unico capace di tagliare la testa della Medusa era stato Perseo, di riflesso attraverso l’immagine nello scudo di bronzo – in un rifiuto della visione diretta, ma non della realtà del mondo in cui gli era toccato vivere, Perseo che con i suoi sandali alati volava in un altro spazio, e ma mai verso il sogno, semplicemente leggero verso altri approcci altre pratiche, altri metodi di conoscenza e azione. La leggerezza – perché l’alternativa mediterranea, “il tentativo di resistere alla deriva fondamentalista degli opposti monoteismi dell’imperialismo occidentale e dell’integralismo islamico”, non è altro che questo: e contro ogni esodo dalla politica, un’Europa dalle idee coniugate alla prima persona plurale, capace di riprendersi la dignità di soggetto, non più oggetto del pensiero. Quello di Franco Cassano e Danilo Zolo è un Mediterraneo contro gli scettici, contro quelli che “seduti sui rapporti di forza, discettano sul possibile e l’impossibile, bollando come confuse utopie le idee che rifiutano di ossequiare i padroni del presente”. Ma è un Mediterraneo che è la cultura del limes, non certo la retorica del sole, degli agrumi e dell’ulivo, è il Mediterraneo “unito, originale e grande” di Braudel, in cui la tradizione greca e latina interagiscono con la cultura ebraica e il mondo arabo fino a forgiare un’entità storica unitaria, dove unitarietà non significa uniformità ma inclusività – un mare che è dunque “non un mare, ma un complesso di mari, mari ingombri di isole, tagliati da penisole, circondati da coste frastagliate, mari la cui vita si è mescolata alla terra”. E’ qui il Mediterraneo, “in quella risacca che lascia su ogni sponda il segno dell’altro” – allergico a tutti i fondamentalismi, il Mediterraneo che ha assistito a sbarchi, invasioni conversioni, sopraffazioni e dunque non è affatto “l’incontro di terra e di mare come l’idillio che ricompone, non è la quiete, ma la difficoltà di stare insieme in un solo luogo” è Camus, e incessante, “la lotta tra la forza delle ragioni contrapposte e la saggezza della misura”. Un Mediterraneo che ha attraversato il colonialismo, le guerre mondiali il bipolarismo, l’incendio arabo-israeliano, il muro di Berlino l’Undici Settembre – e ogni volta più ostaggio di scelte e narrazioni altrui. Fino a truccarsi oggi europeo con l’innesco del Processo di Barcellona – preteso partenariato euro-mediterraneo, ma saldo invece al guinzaglio del new world order statunitense: un’iniziativa asimmetrica, con capitale Bruxelles, e i paesi arabi confinati alla ratifica e all’esecuzione. Perché dei suoi tre pilastri, del dialogo politico non rimane in controluce che una Nato rovesciata da apparato difensivo a strumento offensivo, per una stabilizzazione egemonica del mondo a guida americana attraverso l’ariete di valori presunti universali e la retorica di una sicurezza sempre più larga e vaga. E la cooperazione economica, poi, che non si traduce che in accordi di associazione tra il blocco dell’Unione Europea e singoli ‘partner’ dalla forza contrattuale minima, per una zona di libero scambio che tutela illeso il nostro protezionismo agricolo e travolge invece equilibri di piccole imprese familiari. E infine lo scambio culturale – ma all’ombra del principio di condizionalità: il sostegno finanziario, ovvero l’ortopedia dell’aggiustamento strutturale, è accuratamente legato all’adesione al nostro verbo di convivenza e sviluppo. In una relazione, allarga Ali El Kenz, che è in realtà triangolare e che include invisibili gli Stati Uniti, esprimendo insieme la nostra potenza economica rispetto ai vicini del sud e la nostra debolezza politica rispetto al Washington consensus. Se solo il 2% dei nostri investimenti va verso il Mediterraneo, l’interesse primario non è evidentemente economico: decisiva è invece la posizione strategica dei paesi arabi. Nessuna regionalizzazione – solo progetti nord-sud nell’ambito e a beneficio della globalizzazione, sigilla Samir Amin, con una nuova ripartizione del vecchio white man’s burden: il Broader Middle East americano a presidio del petrolio del Mashreq, il Processo di Barcellona a museruola dei migranti del Maghreb. L’idea è la connessione tra il benessere del sud e la sicurezza del nord: ma “l’occidente può combattere l’integralismo altrui solo avviando la decostruzione del proprio”. Perché ogni universalismo non è in realtà che un fondamentalismo, “la pretesa di fare diventare la propria lingua il linguaggio universale”: restituiamo allora alla luce “la contabilità in nero nascosta nelle stive della missione civilizzatrice dell’occidente” – e in particolare l’evoluzione qualitativa dal dominio esplicito del colonialismo a quello molto più sottile del sottosviluppo. Le differenze culturali sono ora classificate come semplici gradini temporali nella scala dello sviluppo, in un universalismo della competizione e del merito che è solo in teoria una gara aperta a tutti, perché è invece una delle due culture a definire le regole e costituire il modello da imitare. L’individuo astratto della Dichiarazione universale spiana via e livella le persone dei diversi contesti culturali. Il nuovo imperialismo non è più l’occupazione fisica, scrive Fatema Mernissi, e neppure è economico “è più insidioso, il nemico è radicato nelle nostre teste, è il nostro modo di contare, consumare acquistare”. Dalla missione alla mission, per dirla con Stiglitz: sono i fondamentalisti del libero mercato: e non si formano nelle scuole coraniche, ma nelle più prestigiose università occidentali. In questo senso “l’epistemologia del Mediterraneo è la sapienza del confine”: perché un luogo di mezzo sa interrogarsi sulla relazione. “Il fondamentalismo non è l’espressione necessaria dell’essenza di una cultura islamica incompatibile con la modernità, ma l’effetto della relazione profondamente asimmetrica tra l’occidente e il mondo arabo”. La proposta mediterranea è dunque l’ibridazione, ancora, ma questa volta senza dimenticare il differenziale di potere tra le culture: perché “le culture non sono folklore, e il pluralismo non è la tolleranza degli altri che sono più o meno esotici ma non hanno potere”, graffia Raimon Panikkar. E’ qui la fragilità del Processo di Barcellona, centrato sulla parola d’ordine della “istituzionalizzazione del dialogo”: tutto svapora nella moltiplicazione di reti e incontri, “con il mare nostrum dei poeti chiamato a fornire una legittimazione storica e sociale”. Esiste certo una sensibilità mediterranea, è il disappunto di Serge Latouche, non ancora però un’altra Europa meridiana. Come rilanciare dunque il pluriverso mediterraneo? Margot Badran offre l’esperienza del femminismo islamico, “un discorso sull’uguaglianza di genere ancorato nell’interpretazione del corano”, l’ijtihad, la ricerca personale che compete a ogni musulmano – una riflessione critica che per quanto impensabile senza gli stimoli europei e nordamericani, non è affatto omologazione alla cultura occidentale. Oggi che la libertà e la democrazia barcollano anche tra noi civilizzati del primo mondo, la strada è un dialogo vero, un dialogo che presuppone cioè “la scomodità dell’altro”, l’ijtihad dei testi sacri della nostra modernità – una rilettura di disincanto dei nostri assiomi indiscussi, che ne snudi le impronte liberali e individualiste e tutta la storicità allora, la relatività – e che non ne minimizzi poi gli esiti, oggi che non ci riscopriamo che soggetti consumatori “apparentemente liberi, sostanzialmente soli, subdolamente subalterni”. La strada è un’Europa europea, meno atlantica e meno occidentale. La nozione di emisfero occidentale nacque in fondo ai tempi della Dottrina Monroe proprio in opposizione alla “vecchia Europa”: perché l’occidente non è oggi uno solo, è l’occidente mediterraneo ma anche l’occidente atlantico, l’occidente della misura ma anche l’occidente oceanico, senza confini. E’ “l’occidente contro se stesso”, che in nome di imprecisati interessi vitali istituisce uno stato di eccezione permanente, e distrugge i suoi stessi valori nel tentativo di esportarli ovunque. Il Mediterraneo allora, “riserva morale dell’occidente, bacino ecologico del suo umanesimo” – perché “a leggerlo in profondità, si scopre che non parla solo di un piccolo segmento del pianeta, ma dei problemi che il mondo deve affrontare se vuole sottrarsi all’unico verbo della competizione, attraverso una dialettica più complessa dell’espansione lineare dell’evangelizzazione”. |
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