Islam e democrazia. Una partita da giocare.
Centro in Europa, numero 3 / 2011 – L’associazione che presiedo, Funzionari senza Frontiere, si occupa di decentramento amministrativo in Africa: in collaborazione con enti locali e Ong sosteniamo la nascita e la crescita dei Comuni, soprattutto nella parte subsahariana. Ci è quindi venuto “naturale” occuparci, insieme agli amici della Ong Alisei, delle rivolte in Nord Africa, in particolare in Libia. In questa fase ci siamo ovviamente concentrati sull’assistenza umanitaria, d’intesa con il Consiglio Nazionale Transitorio. Non sono un esperto, conosco poco questi Paesi. Ma mi sembrava un dovere cercare di dare una mano. In Nord Africa in generale: perché siamo, o meglio dovremmo essere, un Paese mediterraneo, spinto dalla geopolitica e dalla demografia (l’area del Sud Mediterraneo coinvolge 200 milioni di abitanti in espansione demografica) ad avere uno sguardo attento verso lo spazio euroafricano e euroasiatico. E in Libia in particolare: siamo nel centenario dell’occupazione italiana. Consiglio la visita alla mostra itinerante sui deportati libici a Ustica (1911-1934), per non dimenticare e per non essere, oggi, apatici verso quel che accade in un Paese dalla storia così legata alla nostra. E invece che succede? Sembra quasi che l’Italia non sia un Paese mediterraneo, il suo ruolo è quello della comparsa. A parte gli uomini d’affari, e gli affaristi, il disinteresse è generale. Nemmeno la mia parte politica, la sinistra, si occupa di quello che succede sull’altra sponda del mare nostrum. Non sappiamo molto di quelle rivolte, e ce ne importa ancora meno. C’è chi si sofferma solo sull’intervento della Nato, come se in Libia non ci fosse stata anche una rivolta popolare, un fatto democratico autentico. Come se anche noi non avessimo dovuto contare su alleati esterni per abbattere il fascismo. E ora c’è chi dice che la primavera araba è finita, che è arrivato l’inverno del fondamentalismo islamico: non è così, ma -in ogni caso- che cosa abbiamo fatto in questi mesi per aiutare la primavera, per sostenere la società civile e i nuclei di politica democratica? Nulla, tutti protesi, come ha scritto Rossana Rossanda, “a dare i voti a chi sia il peggio: Gheddafi o la Nato?”. Il meglio ai non europei non appartiene.
E invece il meglio c’era e in parte c’è ancora. Certo, siamo nella fase iniziale di un processo. Anche dopo il 1848 o il 1989 non sempre i successi iniziali furono duraturi, ma le idee allora vincenti innervarono cambiamenti successivi. Non è vero, comunque, che le correnti estremiste dell’Islam abbiano prevalso: in realtà sono state sconfitte. Qualcuno forse ricorda una piazza inneggiante a Bin Laden? Quel Bin Laden, sia detto per inciso, la cui passata forza attrattiva nacque dal patto con il diavolo tra i Paesi che consumano petrolio e i dittatori arabi. Noi abbiamo trattato il mondo arabo come un agglomerato di grandi stazioni di servizio: “dateci petrolio a buon prezzo, non date troppo fastidio a Israele, segregate gli immigrati che vorrebbero venire da noi, in cambio trattate i vostri popoli come vi pare”. Da questo patto nacque Bin Laden, come frutto di tutte le patologie e le ingiustizie che noi abbiamo permesso che germogliassero. La verità è che la rabbia dei giovani, dalla Tunisia all’Egitto, dalla Libia alla Siria, è priva dell’invidia e del risentimento verso l’Occidente che invece ha ispirato e ispira i movimenti fondamentalisti, perché nasce dal desiderio di lottare autonomamente per i diritti e per la libertà. E’ stata spazzata via ogni funesta mitologia sullo “scontro di civiltà”. Il futuro spinge invece per l’”incontro di civiltà”, favorito dalla rivoluzione culturale e mentale in corso nei Paesi arabi (si pensi all’enorme influenza dell’aumento dei livelli di alfabetizzazione).
Non c’è dubbio che oggi ci sia un ripiegamento della spinta democratica dei giovani, nella quale un pensiero politico progressista ha faticato a circolare. Ma non è la fine della primavera, la partita è tutta da giocare. Va contrastato il pregiudizio occidentale in base a cui gli arabi non sono fatti per la democrazia, e c’è incompatibilità tra Islam e democrazia. Non solo perché ci sono consistenti forze laiche, anche perché molti spingono verso un modello che concilia religione, laicità e libertà. Memori del nostro Novecento, dei decenni e dei milioni di morti che ci sono voluti per conquistare la democrazia, dovremmo evitare di salire in cattedra. Guardiamo a quello che sta succedendo nei diversi Paesi. In Tunisia le elezioni sono state vinte dagli islamici moderati di Ennahda: una forza di destra, un partito dell’ordine, ma non la Jihad.
Insomma, la condizione perché la destra vinca è che abbracci, almeno in parte, la democratizzazione. Il leader di Ennahda Rashid al-Ghannouci ha subito dichiarato: “Islam e democrazia conviveranno, la Turchia ne è l’esempio”. E non dimentichiamo che la metà degli elettori ha votato per i partiti laici, che si sono presentati colpevolmente divisi. Moncef Monzouki, leader del partito laico più forte, il Congresso per la Repubblica, ha confermato la tesi di al-Ghannouci: “Ennahda è l’equivalente della vostra Democrazia Cristiana, è una destra ispirata a un islamismo moderato, non è un partito di jihadisti”. Ed entrambe le parti, islamici e laici, lavorano a un accordo politico per costruire uno Stato democratico. Più difficile appare il rapporto Islam-democrazia in Egitto, dove si voterà a novembre. L’Egitto non è la Tunisia né la Turchia: ha un passato prossimo di salafismo violento (ne fu vittima il Presidente Sadat) e un presente di violenza islamista verso i copti, e la crisi economica è ancora più grave di quella tunisina. I partiti laici sono anche qui divisi, e la galassia islamica si sta rafforzando. E tuttavia i Fratelli Musulmani rassicurano: “guardiamo ad Ankara, non a Teheran”. Infine la Libia: anche in questo Paese prevale l’islamismo moderato, e non sembra esserci spazio per l’estremismo fondamentalista. Anche se colpisce l’invisibilità delle donne, a differenza della Tunisia e, almeno in parte, dell’Egitto. Dobbiamo in ogni caso capire sia che l’Islam è, in forme diverse, la base identitaria di questi Paesi, sia che ciò non significa necessariamente che essi diventeranno come l’Iran. E che la battaglia tra spinte diverse è appena all’inizio. La speranza più grande ci viene dai giovani. Ora sembrano arretrare, ma la rottura con la cultura politica autoritaria finora dominante nel mondo arabo appare irreversibile. La popolazione inferiore ai 30 anni, che costituisce i 2/3 del totale, non fermerà la sua lotta.
In un quadro così complesso, che presenta sia rischi che opportunità, molto dipenderà da noi. Dalla nostra spinta perché i diritti democratici fondamentali siano rispettati, ma anche dalla nostra consapevolezza che queste aspirazioni universali vanno necessariamente radicate nelle culture locali, e quindi nell’identità islamica. In Libia, più che le dichiarazioni dei leader del CNT, devono preoccuparci l’assenza delle istituzioni e la debolezza della società civile. Perché sono soprattutto le istituzioni e la società civile che possono frenare l’islamizzazione estremista. Dobbiamo pensare a forme di cooperazione diverse da quelle tradizionalmente indirizzate allo sviluppo economico (alla Libia non mancano i capitali) e puntare a sostenere l’autogoverno locale, il decentramento e la società civile. Per costruire strutture umane e sociali. In assenza di qualsiasi iniziativa del nostro Governo, spetta agli enti locali, all’associazionismo, alle Ong e all’imprenditoria seria svolgere questo ruolo e tenere alto il nome dell’Italia.
Giorgio Pagano
Segretario della Rete delle Città Strategiche e Presidente di Funzionari senza Frontiere; in Liguria è portavoce di Januaforum e Presidente dell’Associazione Culturale Mediterraneo
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