Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Il pane di ieri di Enzo Bianchi

a cura di in data 6 Maggio 2008 – 17:23

L’angoscia di fronte alla domanda: “che tempo fa?” è certo più forte quando un semplice evento atmosferico può distruggere in pochi minuti un anno di lavoro. Allora non è poi così strano vedere il parroco del paese incedere nella tempesta, il piviale viola scosso dal vento, fendere l’aria con l’aspersorio dell’acquasanta e implorare con voce ferma Dio di fermare la grandine: “Per Deum verum, per Deum vivum”. In un mondo sempre più abitato da suoni nuovi e pervasivi è facile perdere le voci antiche che scandivano lo scorrere del tempo: il canto del gallo all’alba, il rintocco delle campane che annunciava momenti lieti o tristi, il grido dell’acciugaio e il richiamo del venditore ambulante di carta da lettere. Suoni quotidiani, destinati a tutti. Il cibo, a ben guardare, oltre che un nutrimento necessario è anche qualcosa di cui si deve “aver cura”. La tavola è luogo di incontro e di festa e la cucina è un mondo in cui si intrecciano natura e cultura. Preparare il ragù può diventare allora un momento di meditazione e la bagna càuda un vero e proprio rito in cui gli ingredienti che la compongono rappresentano uno scambio di terre, di genti, di culture. A dispetto di ogni localismo (anche culinario) tutti i cibi anche i più nostrani, sono carichi di debiti con l’esterno e con chi, in terre lontane, ha coltivato le materie prime, le ha fatte crescere e le ha raccolte. Storie ricche di personaggi singolari, di saggezza popolare, di amore per la terra, di riflessioni sulla vita, la morte e la ricchezza della diversità.

Mentre la Chiesa fatica a comunicare, c’è un cristiano che sa farsi ascoltare da tutti

BARBARA SPINELLI

Chi ha ascoltato Enzo Bianchi sa che la sua parola è molto forte, e che incontrarlo è un accadimento nella propria vita. È un accadimento perché c’è una parte di mistero in lui, nel suo essere nel mondo: la sua parola è al tempo stesso in costante espansione e in costante indietreggiamento, è detta e non detta, è sonora ed è sussurro, è esercizio in incremento e in sottrazione. È raro trovare chi non sia stato colpito dalla forza della sua eloquenza, in Italia e fuori. Ma non meno significanti sono i suoi silenzi. Durante la vicenda di Eluana Englaro, ad esempio, scelse di non parlare affatto. Parlò dopo la sua morte, sulla Stampa dove scrive, citando il Qohèlet: «C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare».

È così anche nel monastero di Bose, che creò nel ’65 quando, in solitudine, decise di esser cristiano in modo diverso (cominciò l’8 dicembre, il giorno che finì il Concilio Vaticano II). Nella comunità è padre, fratello, maestro nelle cose minime: conoscerlo vuol dire anche vederlo nelle sue bellissime cucine, tra lo squisito vasellame plasmato dai confratelli. Mettere le mani in pasta è per lui quello che avviene nell’eucaristia: il pane è fatto di grano impastato dall’uomo, il vino è uva pigiata dall’uomo. Il fare umano s’unisce alla natura e al cielo. Bianchi è completamente immerso nella comunità e però ogni tanto si ritrae, ha sete di immensi ritiri, e allora sale sull’altura dov’è un suo abitacolo e sta solo per giorni. I fratelli gli portano da mangiare. Sul priore scende la luminosa notte d’un distacco silente.

Questo doppio volto è una sua verità, e per questo conoscerlo non è una pagina della propria vita ma tutto un libro: non molto diverso dal Libro di Sabbia di Borges, imprevedibile se lo sfogli («Il numero delle sue pagine è esattamente infinito. Nessuna è la prima, nessuna è l’ultima»). Non è doppiezza, perché nella doppiezza può succedere che l’uomo si nasconda, che dissimuli. Il vivere doppio di Bianchi è piuttosto un vivere-tra. Tra il mondo e ciò che non è del mondo. Tra adesione alla pólis e distacco. Bianchi cita spesso la lettera a Diogneto, scritta nel II secolo: i cristiani «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo».

L’idea della cittadinanza in cielo è fondante nel Priore, è la radice del suo essere duplice. Appare già nella Lettera ai Filippesi di Paolo (3,20), dov’è scritto: «La nostra patria è nei cieli». Bianchi cita in genere la parola greca – políteuma – che vuol dire cittadinanza e che la Bibbia di King James traduce con conversazione. Sprofondati nel mondo, conversiamo tuttavia sempre con Dio. Il cristianesimo grande è stare in questo intermezzo, nell’entre-deux di Pascal: fra i due abissi dell’infinito e del nulla.

Ci sono parole-scintille in Bianchi, che l’accendono: la pólis, il políteuma, l’Ultimo, lo Straniero. E la profezia soprattutto: il parlare, come lui dice, «a nome di Dio». Alla Chiesa non spetta entrare nel mondo con un suo progetto politico, perché altro è il compito: immergersi nella comunità degli uomini, portando con sé – sale gratuito – l’agire di Gesù. E il suo dire: «Voi, invece, non così» (Luca 22,26). L’umanesimo della fratellanza, della solidarietà col povero, non è specialmente cristiano. La differenza cristiana s’esprime nel racconto del Cristo, e nello smuovere pensieri prima della politica: non dettando leggi, ma profetizzando. Il cristiano è vero quando si sente un nuovo venuto in terra, un égaré come dice Pascal, uno smarrito. Il suo essere spaesato, «di questo mondo e non di questo mondo» (1 Corinzi 7,29-31), si nutre di laicità e riconosce autonomia alla storia umana proprio per restare se stesso. Bianchi ha un modo lucente di dirlo. La nuova antropologia, il cristiano la propone «di tempo in tempo, di luogo in luogo»; non dimenticando che: «Si nasce uomini, e cristiani non si nasce ma lo si diventa». Bianchi è uomo solitario nella Chiesa, ma non conflittuale. Un altro vocabolo a lui caro è: parresia. La parresia, fin dalle tragedie di Euripide, è il coraggio di parlare che la pólis democratica suscita. È, letteralmente: libertà di dire tutte-le-parole. Qual è la gerarchia del dicibile? Fin dove spingersi? A voler dire tutte le parole, si rischia di dirne una sola, povera. Parresia non è cedere alla coercizione ma appunto: saper parlare di tempo in tempo, eventualmente tacendo. La Chiesa minoritaria è un’occasione: per la profezia, la parresia. Per imitare i silenzi di Gesù, nel chiasso mondano.

Anche Gesù vive nell’intermezzo. Nell’Evangelo parla, poi d’un tratto ammutolisce. Piange quando Lazzaro muore, muto, pur sapendo che lo risusciterà. Quando gli portano l’adultera fa silenzio a lungo, si china, si mette a scrivere col dito per terra (Giovanni 8,3-11). Quasi sembra desideroso d’ignorare gli scribi: che evidentemente non cercano la verità ma un capro espiatorio. Sulla croce tace accanto al brigante non pentito, condividendone la condizione di colpevole. Vivere tra parola e silenzio, impegno storico e attesa escatologica, ospitalità e solitudine: è la segreta doppia vita di Bianchi. Non tanto segreta, per chi ascolti la sua descrizione del buon cristiano: «non crociato, ma segnato dalla croce». Con-crocifisso.

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