In quei quarantacinque giorni di Badoglio cominciò il riscatto. E partì dal basso
Patria indipendente, 20 agosto 2023
di Giorgio Pagano
Dopo il 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini, a fronte di una classe dirigente che non prendeva le distanze dal regime (milizia non incorporata nell’esercito, detenuti politici liberati solo in parte, legislazione razziale ancora in vigore) e partiti ancora deboli, nel Nord è la classe operaia a innescare una svolta storica rispetto al ventennio. E nemmeno gli stravolgimenti dell’8 settembre potranno metterla in discussione.
I quarantacinque giorni che vanno dal 25 luglio all’8 settembre 1943 sono la testimonianza dell’insipienza della classe dirigente che aveva liquidato Mussolini, rivelandosi incapace della decisione richiesta dalla gravità del momento: una coraggiosa politica antitedesca.
Il maresciallo Pietro Badoglio, a capo del nuovo governo costituito dal re, si rese progressivamente autonomo da Vittorio Emanuele III nella politica interna. Ma rimase sempre, tra i due, il punto di incontro sulla politica estera. Ancora il 6 agosto, nel convegno di Tarvisio, gli italiani ribadirono la loro alleanza con i tedeschi. Così il 15 agosto, in un convegno a Bologna tra militari italiani e tedeschi.
In questo modo i tedeschi, sostanzialmente indisturbati, poterono portare in Italia, tra la fine di luglio e la prima metà di agosto, sei divisioni e mezzo. Un’occupazione che sarebbe continuata fino all’8 settembre, con altre divisioni e non meno di 120 mila uomini non inquadrati nelle divisioni. Solo il 17 agosto, quando le posizioni tedesche in Italia erano ormai definite, gli italiani decisero di trattare con gli anglo-americani, le cui proposte, offerte in numerose missioni esplorative, avevano fino ad allora rifiutato.
Si decise tuttavia «di mantenere uno schieramento in funzione anti anglo-americana e di prendere, nei confronti dei tedeschi, solo quei provvedimenti miranti a impedire un’aggressione prima dell’accordo con gli alleati, e cioè un rafforzamento dell’apparato difensivo intorno a Roma e a La Spezia (dov’era ancorata la flotta italiana)»[1].Ma in realtà l’esercito non fu preparato all’imminente cambiamento di fronte e tutto fu trascinato per evitare uno scontro con i tedeschi, prendendo misure ambigue e contraddittorie: «non vi fu nessun reale orientamento dei comandi periferici, che al contrario furono colti alla sprovvista dall’annuncio dell’armistizio, e, date queste premesse, non desta meraviglia l’esito disastroso dell’armistizio» [2]. L’esercito italiano era logorato da tre anni di guerra, e molti comandanti periferici avevano un orientamento filotedesco: ma all’origine del baratro dell’8 settembre furono essenzialmente le esitazioni e le paure verso i tedeschi del re e delle alte gerarchie militari, come se si potesse uscire dalla guerra col consenso di entrambi i contendenti. Da un giorno all’altro l’Italia si trovò senza governo – Badoglio seguì il re nella sua fuga verso i territori già controllati dai nuovi alleati – e con l’esercito tedesco accampato nel nord e nel centro del Paese. Si può dunque concordare con Ruggero Zangrandi, secondo cui se il rovesciamento del fronte fosse avvenuto il 25 luglio l’esito del confronto con i tedeschi sarebbe stato certamente più favorevole [3]. Fu la vigliaccheria della classe dirigente a portare all’armistizio tardivo e al disastro.
La classe dirigente fallì l’obiettivo primario, e questo suo fallimento aprì una fase drammatica della storia italiana.
E tuttavia «per il mondo operaio e, in modo meno diretto, per la storia del movimento operaio quei quarantacinque giorni si rivelarono importanti perché in quel breve torno di tempo si produsse una sperimentazione nel rapporto tra potere politico e mondo della fabbrica quale solo in situazioni eccezionali può avvenire» [4]. Si tratta di un fatto importante per la storia d’Italia: perché in quelle giornate del luglio e dell’agosto 1943 la classe operaia iniziò a riprendere vigore. Fu l’inizio di un processo al termine del quale uscì dalla guerra con un protagonismo assai significativo, come nessun’altra forza della società. Tanto più dopo essere stata per vent’anni marginalizzata nella scena politica.
Fu questo il principale terreno su cui Badoglio si distinse dal re, e su cui Vittorio Emanuele III e i militari mostrarono una profonda insoddisfazione per l’operato del governo. Dopo il 25 luglio il processo di defascistizzazione fu molto stentato, e i comportamenti effettivi furono distanti dalle dichiarazioni d’intenti. La milizia fascista non fu incorporata nell’esercito, i fascisti più pericolosi e gli squadristi in fabbrica non furono quasi mai richiamati alle armi, i detenuti politici vennero liberati solo in parte, la legislazione razziale non fu abolita. Ancora il 19 agosto il capo della polizia Carmine Senise invitava le Questure a vigilare attentamente sui fascisti, ma nel contempo le autorità agivano contro la «propaganda antinazionale».
Esaminiamo, per esempio, la situazione alla Spezia. Il 14 agosto «Un gruppo di cittadini amanti della libertà» di Sarzana scrisse alle autorità per denunciare che «nella sede dell’ex M.V.S.N (Palazzo Comunale di Sarzana) quotidianamente avvengono convegni cui partecipano i più violenti e fanatici elementi del disciolto partito fascista» e che «non manca di apportare il suo contributo dialettico e forse tangibile il Maggiore del R. Esercito Rago Michele». Si chiedeva pertanto «un provvedimento d’urgenza» [5] – la soppressione del presidio della milizia – che il Questore sollecitò al Prefetto il 16 agosto e che il Comando del Presidio Militare annunciò il 29 agosto.
D’altro lato, il 17 agosto il Comando in capo del Dipartimento Marittimo Alto Tirreno scriveva alla Prefettura per «stroncare energicamente» la «propaganda antinazionale fra gli operai degli stabilimenti ausiliari ed officine locali specie di interesse militare marittimo, fra i quali sono stati distribuiti manifestini di varie tinte incitanti le masse lavoratrici a sospendere – tra l’altro – ogni loro attività ed a chiedere la pace» [6].
Le opposizioni antifasciste, nei quarantacinque giorni, restarono sullo sfondo. Sia per le difficoltà del contesto sia per la loro debolezza interna. Le manifestazioni successive al 25 luglio furono in gran parte spontanee, senza una direzione politica precisa. I comunisti erano i più attivi, i più in grado di raccogliere gli orientamenti della classe operaia. Il ruolo del partito ad agosto fu più incisivo, sia rispetto agli scioperi del marzo 1943 che a quelli del luglio. Anche se le divergenze al suo interno non mancarono: il partito era stretto tra due esigenze, organizzare il malcontento popolare e tenere unito il fronte antifascista, dove convivevano tendenze più moderate, vicine a Badoglio, e più radicali, espresse dagli azionisti e a volte dai socialisti. I primi manifestini furono firmati da comitati unitari, sotto vari nomi ed etichette: ma raramente avevano alle spalle partiti già ramificati e diffusi. Si può dire che le agitazioni operaie avvennero nel complesso al di fuori delle decisioni delle opposizioni, e che progressivamente i partiti, i comunisti in primo luogo, cercarono di dirigerle. Anche gli scioperi di agosto ebbero la caratteristica di iniziativa autonoma dal basso, in grado di fare avanzare la situazione politica di vertice e in qualche modo di sbloccarla.
Le agitazioni iniziarono fin dai primi giorni di agosto, un po’ dappertutto e con motivazioni diverse: allontanamento dei fascisti, funzionamento delle mense, aumenti salariali. Fu un crescendo fino al 17-20 agosto, quando l’infittirsi degli scioperi assunse un più netto significato politico, in primo luogo a Torino e a Milano: per la rottura con la Germania e per l’effettiva liquidazione del fascismo. Gli effetti furono duplici: «sul piano sindacale portarono […] ad un allentamento dell’apparato repressivo e diedero impulso alla costituzione e attività delle Commissioni interne; su quello politico generale accelerarono la rottura, peraltro mai del tutto consumata, tra il fronte antifascista e il regime badogliano» [7].
Già agli inizi di agosto il ministro dell’Industria Leopoldo Piccardi conduceva le trattative per la nomina dei commissari confederali a capo delle nuove organizzazioni sindacali dei lavoratori: furono nominati il socialista Bruno Buozzi, il comunista Giovanni Roveda e il democristiano Gioacchino Quarello. La proposta fu accettata in cambio del rilascio dei confinati politici. Il 2 settembre si concluse la trattativa tra sindacati e Confederazione degli industriali, con un accordo nazionale sulla costituzione delle Commissioni interne, elette dai lavoratori. L’accordo costituiva «un salto di qualità importante» perché «affermava un principio di libertà e insieme il metodo per poterlo realizzare» [8], dopo vent’anni di dittatura. La democrazia fece il suo primo passo, significativamente, in fabbrica. Poi il precipitare degli eventi impedì di portare a compimento ciò che l’accordo aveva reso possibile: alla Spezia, per esempio, solo i lavoratori del Cantiere Navale Muggiano elessero i loro rappresentanti nella Commissione interna, due comunisti e un repubblicano. Ma fu uno spiraglio positivo, «una prova di democrazia che aveva trovato nella fabbrica il suo primo momento di realizzazione» [9].
Dagli scioperi di agosto restò estranea Genova. Dopo gli scioperi e i caduti delle manifestazioni di fine luglio, i lavoratori genovesi, sotto la guida del comunista Arturo Delle Piane, furono protagonisti di un’esperienza originale: l’elezione dei propri rappresentanti nelle Commissioni interne, ben prima dell’accordo nazionale. Un impegno più sindacale che politico, nel segno della legalità, che fu poi avversato dal centro del partito, che esautorò Delle Piane. Un impegno non suffragato da una chiara strategia politica ma capace, comunque, di esercitare una forte influenza in fabbrica. Come ha scritto Antonio Gibelli in riferimento a Genova, i quarantacinque giorni «appaiono come un vero e proprio laboratorio delle relazioni industriali possibili all’interno di un gigantesco complesso delle partecipazioni statali». [10]
In momenti e con caratteristiche diverse, sia pure con un movimento ancora debole, nei quarantacinque giorni era ormai stata innescata una svolta storica rispetto al ventennio, per la classe operaia, per il Partito comunista e per gli altri partiti antifascisti. Nemmeno gli stravolgimenti dell’8 settembre la misero in discussione: lo dimostrarono il grande sciopero del marzo 1944 e la partecipazione operaia alla Resistenza, fino al 25 aprile 1945.
Giorgio Pagano, storico, sindaco della Spezia dal 1997 al 2007, copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi. È autore di numerosi libri, tra cui per Edizioni Cinque Terre: Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia (con Maria Cristina Mirabello); Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona operativa, tra La Spezia e Lunigiana (con Maria Cristina Mirabello); Sao Tomè e Principe. Diario do centro do mundo; Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945; Non come tutti; Ripartiamo dalla polis; La sinistra la capra e il violino. Per Castelvecchi ha pubblicato Africa e Covid-19. Storie da un continente in bilico. Ha curato per ETS la pubblicazione del libro di Dino Grassi Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista, uscito nei giorni scorsi
[1] Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, L’Italia dei quarantacinque giorni, 1943 25 luglio-8 settembre, Milano, Quaderni de «Il movimento di liberazione in Italia», Milano, 1969, p. 154.
[2] Ivi, p. 157.
[3] Ruggero Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre, Feltrinelli, Milano, 1964, pp. 651-654.
[4] Claudio Dellavalle (a cura di), Operai, fabbrica, Resistenza. Conflitto e potere nel triangolo industriale (1943-1945), Ediesse, Roma, 2017, p. 185.
[5] Prefettura Gabinetto, Servizi di Pubblica Sicurezza, b. 84, ASSP. La sera del 13 dicembre 1943 Michele Rago, diventato commissario prefettizio di Sarzana e segretario del locale Fascio, subì un attentato nella piazza principale di Sarzana e rimase ferito.
[6] Prefettura Gabinetto, Servizi di Pubblica Sicurezza, b. 84, ASSP.
[7] Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, L’Italia dei quarantacinque giorni, 1943 25 luglio-8 settembre, cit., p. 136.
[8] Claudio Dellavalle (a cura di), Operai, fabbrica, Resistenza. Conflitto e potere nel triangolo industriale (1943-1945), cit., p. 231.
[9] Ivi, p. 232.
[10] Antonio Gibelli, Lavoro e guerra. L’Ansaldo nella transizione, in Gabriele De Rosa (a cura di), Storia dell’Ansaldo, vol. 6, Dall’IRI alla guerra 1940-1945, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 231-232.
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