Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Tre libri da leggere (ma anche no)

a cura di in data 6 Febbraio 2022 – 22:27

Tempo – Il sogno di uccidere Cronos” (G.Tonelli),
Un tempo senza storia” (A.Prosperi)
La dannazione 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo” (Ezio Mauro).

Pierfranco Pellizzetti | Giorgio Pagano e Paolo Favilli
 

Micromega.net – Rileggiamo insieme, 30 Dicembre 2021

Sentirsi piccini, soli e precari
Guido Tonelli, Tempo Il sogno di uccidere Cronos, Feltrinelli, Milano 2021

«Da una prospettiva materialista l’obiettività
del tempo e dello spazio è data dalle pratiche
materiali di riproduzione sociale
»[1].
David Harvey

Per queste festività (ma che c’è da festeggiare? Semmai da meditare) mi permetto di suggerire un cambio di prospettiva, quale quella dell’effettiva dimensione spazio-temporale oggetto di un agile volume di un saggista pro tempore: Guido Tonelli, fisico al Cern di Ginevra, professore all’Università di Pisa e partner nella task degli scopritori del bosone di Higgs.

Parlando di “cambio di prospettiva” ci si riferisce alla nozione corrente di tempo e di spazio, rimasta – di fatto – all’idea che ne aveva Isaac Newton; ossia quell’orologio universale o ‘tempo assoluto’, identico per tutti i possibili osservatori nell’universo, che già allora non convinceva Wilhelm von Leibniz (secondo cui «il tempo raffigura l’ordine della successione, mentre lo spazio l’ordine della coesistenza»[2], sicché non possono essere concepiti al di fuori della materia e della mente che li pensa), ma che venne validata da Immanuel Kant collocando i due enti fra gli “a priori” della nostra mente. Dunque, il sostegno alla concezione newtoniana, dominante non solo nella scienza fino al primo Novecento (a conferma di una urticante considerazione di Pierre Bourdieu secondo la quale – al di là della retorica scientista – «il fatto diventa fatto scientifico solo se è riconosciuto. La costruzione è due volte determinata socialmente: dalla posizione del laboratorio o dello scienziato nel campo; e dalla posizione del recettore»[3]. Tradotto dal bourdivinismo, l’accreditamento di una teoria scientifica dipende molto di più dal principio di autorità che da quello di verificabilità), ma anche nel comune sentire, almeno fino ad oggi. Tesi rivelatasi per secoli un formidabile strumento a disposizione degli umani per sopravvivere nel loro ambiente, spazzata via da Albert Einstein nel 1905 (teoria della relatività ristretta) e poi nel 1915 (teoria della relatività generale); scaraventandoci in un intricato labirinto di paradossi mentali, da cui risulta non poco problematico districarci. E il saggio di Tonelli proverebbe a dare una mano proprio a tale scopo.

D’altro canto, confesso che se dichiarassi di aver capito tutto quello che ho letto nel suo agile manuale mentirei spudoratamente. Però almeno due messaggi mi sembrano sufficientemente chiari. Innanzi tutto l’effettiva dimensione da attribuire alla condizione umana: «quando usiamo i nostri telescopi e registriamo una bella immagine di Andromeda, sappiamo che la luce ha fatto un lunghissimo cammino; ha lasciato la galassia sorella della nostra Via Lattea nel periodo in cui, da qualche parte del Corno d’Africa, avveniva la prima differenziazione del genere Homo, quello cui noi Sapiens apparteniamo, dall’Australopiteco africano. Il caso ha voluto che quei fotoni siano partiti proprio quando una strana famiglia di scimmie cominciava a fare i primi passi di un lungo cammino; l’evoluzione l’avrebbe portata a sviluppare coscienza e strumenti tecnologici, fino a inventare gli apparati fotosensibili che avrebbero assorbito i fotoni proprio quando fossero arrivati sul pianeta Terra»[4].

Ascoltando questo racconto lo sentite “l’infinito, sovrumano silenzio” che lo accompagna, come lo hanno percepito grandi spiriti, da Giacomo Leopardi a Jacques Monod? Per cui «l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo»[5].

La faticosa presa d’atto consapevole della solitudine umana in questa immensità, che riduce a miserie infinitesimali gli assunti pretenziosi delle nostre ideologie, mentre si ripropone in tutta la sua inaggirabile urgenza la priorità reiteratamente propugnata dalle menti migliori e più generose della nostra specie: l’imperativo di unire le nostre fragili forze per fare rete: la massa critica della solidarietà necessaria per coltivare umanità.

«La vita dell’uomo è una lunga marcia attraverso la notte; nemici invisibili lo circondano, stanchezza e dolore lo torturano, ed egli avanza verso una meta che pochi possono sperare di raggiungere e dove nessuno potrà sostare a lungo. Uno per uno, mentre procedono, i nostri compagni scompaiono alla vista, colpiti dagli ordini silenziosi della morte onnipotente. Possiamo aiutarli per un tempo brevissimo, durante il quale si decide la loro felicità o la loro disgrazia. Sta a noi illuminare il loro cammino, lenire la loro sofferenza con il balsamo della simpatia, rafforzare il coraggio vacillante. […] Reggere da solo, stanco ma ostinato Atlante, il mondo che i suoi ideali hanno edificato a dispetto del cieco avanzare di una potenza inconsapevole»[6].

E poi c’è il secondo memento, di cui si dovrebbe tener conto con maggiore attenzione rispetto a quanto non si sia soliti fare: l’assoluta precarietà “materica e oggettiva” di questa nostra condizione.

«Osservato su una scala dei tempi infinitesima rispetto ai processi cosmici, l’angolino di universo che occupiamo ci appare pacifico e tranquillo. […] Per questo abbiamo immaginato che lo scorrere fluido e regolare del tempo, scandito da fenomeni periodici così confortanti per noi, fosse una caratteristica dell’universo nel suo complesso. In verità, non è così. Le zone turbolente, quelle dominate da fenomeni caotici, o caratterizzate da immani catastrofi, i posti oscuri dove le nostre osservazioni ci fanno ipotizzare interi sistemi solari sbriciolati da esplosioni di supernove, o lontane galassie devastate da nuclei galattici attivi, sono molto più comuni di quello che immaginiamo»[7]. E basterebbe ben poco per rompere tale equilibrio delicato anche nel nostro sistema solare. Se la nostra Luna agisce come un grande giroscopio che stabilizza l’asse di rotazione terrestre, sarebbe sufficiente che il nostro satellite fosse più piccolo per venire meno all’indispensabile funzione. Se invece fosse più grande delle sue attuali dimensioni, si determinerebbero gravi e devastanti effetti di marea, inevitabili perturbazioni dell’orbita terrestre.

Considerazioni che dovrebbero indurci – appunto – a difendere con ben altra determinazione questa nostra piccola isola felice: Gaia. Un messaggio che prende ancora maggior forza se a trasmetterlo non è un fisico o un filosofo, ma un poeta. Come Giorgio Caproni, con i suoi “Versicoli quasi ecologici”: Non uccidete il mare/ La libellula, il vento/ Non soffocate il lamento/ (il canto!) del lamantino./ Il galagone, il pino:/anche di questo è fatto/ l’uomo. E chi per profitto vile/ fulmina un pesce, un fiume,/ non fatelo cavaliere/ del lavoro. L’amore/ finisce dove finisce l’erba/ e l’acqua muore. Dove/ sparendo la foresta/ e l’aria verde, chi resta/ sospira nel sempre più vasto/ paese guasto: “come/ potrebbe tornare a essere bella,/ scomparso l’uomo, la terra.

Pierfranco Pellizzetti


La storia dell’umanità come lotta per la memoria

Adriano Prosperi, Un tempo senza storia – la distruzione del passato, Einaudi, Torino 2021

Siamo immersi in un mutamento profondo: le diseguaglianze sempre più crescenti, la febbre della natura e l’allarme per la specie umana, la crisi della democrazia. Chi nel 1989, come Francis Fukuyama, aveva immaginato la “fine della storia” si è poi ricreduto: «ha dovuto fare i conti con l’unica legge fondamentale della storia umana, il mutamento», scrive lo storico Adriano Prosperi nel suo libro Un tempo senza storia (Einaudi, 1921, p. 4).  Fukuyama si era spinto a sostenere che fosse iniziata “l’era della democrazia universale”, ma l’unica superpotenza rimasta, gli Stati Uniti, “militarizzò” il messaggio democratico, presentando e giustificando gli attacchi contro l’Iraq e l’Afghanistan come “guerre democratiche”. Le smentite sono state brucianti, provocando disastri. La storia non è finita, e la ricerca storica ci serve per capire il grande mutamento in corso.

Tuttavia, osserva Prosperi, avanza un processo di «distruzione del passato». La maggior parte dei giovani, aveva notato Eric Hobsbawn in Il secolo breve (Rizzoli, 1995), «è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo che viviamo». Sono i mali causati dallo «spettro del pensiero a breve termine» denunciati da David Armitage e Jo Guldi in Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi (Donzelli, 2016).

Il tema centrale del libro di Prosperi è il contrasto all’indifferenza nei confronti del passato. Se ho scelto, per questo “speciale” della rubrica, Un tempo senza storia è perché è un libro, denso e colto, che affronta un tema oggi decisivo. Un libro utile perché «la storia intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta per la memoria» (Jurij Michailovič Lotman e Boris Andrevič Unspenskij, Tipologia della cultura, Bompiani, 1975). Un libro da usare come “bussola” ogni giorno. Faccio alcuni esempi, tratti da esperienze personali.

Sono un cooperante, presiedo una Ong. L’Africa è quasi senza passato, per la «legge dei vincitori che ha trionfato nella storiografia europea […] Quello che è calato allora sul continente africano è stato il velo oscuro della sconfitta, con la scomparsa delle sue antiche civiltà e la devastante tratta degli schiavi» (Un tempo senza storia, pp. 14-15). Con la decolonizzazione qualcosa è cominciato a cambiare, ma poco. Stiamo iniziando a lavorare, insieme ai protagonisti ancora in vita, a una storia del movimento di liberazione nazionale di Sao Tomé e Principe, ex colonia portoghese: la prima storia di questo tipo. Altri movimenti di resistenza anticoloniale si sono poi divisi, e non hanno lasciato memoria di sé. Ma non solo l’Africa è quasi senza passato. Anche l’Italia lo è. Una buona parte del popolo italiano ha perduto la memoria delle proprie migrazioni e delle umiliazioni in esse subite, e oggi umilia i migranti costretti a fuggire dall’Africa. L’idea del libro – ha rivelato Prosperi nell’intervista a Roberto Vignoli su MicroMega.net (22 marzo 2021) – nacque nel 2017 «in un momento particolarmente crudele: navi cariche di migranti ferme fuori dai porti, gente che moriva (come oggi) attraversando il Mediterraneo. Ebbi allora la sensazione di un ritorno dell’epoca in cui i treni carichi di ebrei deportati nei lager tedeschi attraversavano stazioni dove la gente si girava dall’altra parte». Non è solo l’Italia, è tutta l’Europa che sta smarrendo e dimenticando la sua grande eredità culturale. Pensiamo alla foresta di Białowieża. Forse un giorno i nostri discendenti la nomineranno come uno dei luoghi dove finì l’Europa.

Ancora. Presiedo, alla Spezia, il Comitato Unitario della Resistenza, in rappresentanza dell’ANPI. Aumenta il numero delle persone che pensano che la Shoah non sia mai esistita. Come si può dare un futuro alla memoria oltre la durata delle generazioni dei testimoni? Vale per i deportati come per i partigiani. In una corsa contro il tempo ho raccolto e sto raccogliendo, come tanti altri in Italia, le loro testimonianze. Ma basterà, di fronte al fatto che è «scomparsa la memoria vivente trasmessa dai narratori anziani e raccolta dai più giovani»? (Un tempo senza storia, p. 17). Una domanda che angoscia. Perché «ciò che è accaduto può ritornare» (Primo Levi, Appendice a Se questo è un uomo). Perché, comunque, si è già tentato di trasformare la Festa della Liberazione in festa della libertà, la parola più abusata che ci sia mai stata (come confermano le tristi vicende di questo periodo), e lo si tenterà, in qualche modo, ancora. La ricerca storica viene così piegata al potere dominante. Ma è un inganno che tradisce la natura della ricerca storica, che ambisce alla conoscenza della verità e pertanto svela i misfatti del potere.

L’ultimo esempio. Anch’io scrivo di storia. Il mio ultimo libro è dedicato agli anni Sessanta e al 1968-1969. Per fortuna ho raccolto le testimonianze orali, consultato gli archivi delle scuole, delle Prefetture, dei Comuni. Ma è impressionante -almeno alla Spezia, allora “città operaia” per eccellenza- l’assenza o quasi di archivi e documenti di partiti, sindacati, consigli di fabbrica… La memoria del lavoro, in particolare, è cancellata. Ho trovato più documenti sui cineforum o sui gruppi teatrali che non sulle lotte dell’”Autunno caldo”. I giovani operai non sanno nulla del passato. Con il trionfo del neoliberismo, tutto quello che appartiene al Novecento sembra sia stato cancellato.

Africa, migrazioni, Shoah, Resistenza, lotte del lavoro: tutto è oggetto della “distruzione del passato”. Che «si allea con un voltare le spalle al futuro, una specie di malattia della speranza» (Un tempo senza storia, p.11).

Il “tempo senza storia” è il nostro tempo. I giovani non hanno un disegno di futuro: è qui la radice della crisi della storia. La domanda che il giovane più di tutti rivolge alla storia nasce dalla speranza: per capire il suo futuro si volta indietro per capire da dove viene. Se la speranza muore, al posto della storia c’è il presente permanente. Tra memoria del passato e speranza di futuro c’è quindi un nesso fondamentale. Si combatte il disinteresse per la storia combattendo la malattia della speranza. É per questo che mi definisco un “narratore di storie e di speranze”.

Ma è evidente che non bastano gli storici, o i “narratori di storie e di speranze”, a contrastare questo spirito del tempo. La questione, osserva Prosperi, riguarda la scuola – che rischia di essere sopraffatta dalla “rete”, nella quale la conoscenza diventa un insieme di frammenti e lo scambio di informazioni guadagna in velocità ma perde in profondità, oltre a sfuggire ad ogni controllo critico – ma non solo. Riguarda anche le altre, diverse vie attraverso cui si forma la coscienza storica delle persone: partiti, sindacati, movimenti. Riguarda la sinistra, che va rifondata dalle macerie. All’uomo contemporaneo lo studio del passato serve: è un immenso patrimonio a cui attingere. Certamente non tutto il passato ha potenzialità per il futuro. Ma alcune sue tracce sì. La loro ricerca è il mestiere suggerito da Walter Benjamin (Sul concetto di storia, Einaudi, 1997): «riattizzare nel passato la scintilla della speranza». Ed è proprio riflettendo su Beniamin che Prosperi chiude Un tempo senza storia (p. 115): «Quello nel passato non è il viaggio di un tranquillo erudito, è il balzo di tigre di chi è minacciato da un pericolo mortale. É allora che si riapre il contatto con le ombre del passato e si riattiva il ponte tra i vivi e i morti. Un ponte che oggi sembra interrotto, scomparso dalla vista, come perduto dalla nebbia». Ma dobbiamo cercarlo ancora, «mentre un vento di bufera gonfia le ali e spinge verso l’ignoto futuro».

Giorgio Pagano


La dannazione della rivoluzione (di un riformista immaginario)

Ezio Mauro, La dannazione 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo, Milano, Feltrinelli, 2020

Il centesimo anniversario della fondazione del PCdI ha prodotto un’amplissima letteratura di vario genere: storie, storielle e trash. Studiare con attenzione questo eterogeneo composto è cosa necessaria per una riflessione seria sullo stato della cultura contemporanea, della politica contemporanea ed il loro rapporto con la storia.

Questione preliminare quella di analizzare il suddetto composto magmatico alla luce della criteriologia cantimoriana delle «distinzioni», per evitare la confusione tra il piano degli «studi seri» e il piano dei «fenomeni culturali contemporanei»[8].

Croce definiva quella parte di tali fenomeni che si vogliono chiamare «storie», libri del tutto privi di «unità logica», libri che costruivano «la loro unità non già in un problema (il corsivo è mio) ma in una cosa, o, per dir meglio, in un’immagine»[9].

Affrontare un problema storico secondo «unità logica» significa utilizzare gli strumenti analitici del paradigma della profondità, cioè consapevolezza epistemologica e le sue ricadute metodologiche, ampio orizzonte di riferimento spazio-temporale, acribia filologica. Il Croce – scrive Cantimori – ha trasportato dalla secolare esperienza filologica, agli studi storici la lama affilatissima della consapevolezza critica»[10] senza la quale non esiste alcun «giudizio storico».

I libri che proiettano l’«immagine» della contemporaneità nella logica dei processi storici non possono trovare giustificazione nel fatto che Croce considera «la storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale [i] fatti [del passato] propagano le loro vibrazioni»[11]. Quei libri si limitano ad orecchiare la nota tesi crociana, prescindendo completamente dai modi con cui si deve affrontare il «problema storico». Non «storie», quindi, ma «storielle», come quella raccontata da Ezio Mauro.

Mauro definisce immediatamente, nell’Introduzione, la «cosa», l’«immagine» in cui fisserà, come in un «destino perenne», più di un secolo di storia di socialismo/comunismo. Un’immagine così tratteggiata: «È come se il riformismo e l’intransigenza massimalista fossero due condanne di destino», tanto che ancora oggi, dopo che è finito il comunismo italiano, «durato troppo a lungo», non si è ancora riusciti a trovare una forza socialista capace di portarci fuori «dal pantano del postcomunismo verso la terra asciutta del riformismo»[12].

Una tesi, anzi un’opinione, di un giornalista-politico, continuamente ripetuta nei suoi articoli pubblicati su «la Repubblica», e dilatata in 200 pagine di racconto che, lungi dal rappresentarne un contesto dinamico-dialettico, servono come sfondo cronachistico mobile per ribadirne la atemporale fissità.

Una sintesi di illuminante chiarezza sulla caratteristica del collante che unisce le 200 pagine, la si può trovare in un articolo sulle elezioni presidenziali francesi pubblicato il 4 maggio 2017. Esemplare il modo di rappresentare Macron e la parte della sinistra che si rifiuta di votare al ballottaggio. Macron, per Mauro, è certamente un «tecnocrate borghese», ma crede «nei vincoli della responsabilità, nella modernizzazione ideologica», rappresenta, dunque, una «versione franco-centrica» di quello che in Italia «abbiamo provato a chiamare da anni “riformismo”. Chi non lo vota al ballottaggio è mosso da «odio nei confronti del riformismo», un «odio antropologico», lo stesso che è stato causa della nascita dei partiti comunisti nelle scissioni europee dal 1919 ai primi anni Venti, lo stesso che ha animato (e anima) la dannazione.

Gli «studi seri», se vogliono rimanere tali, non possono fare a meno di verificare se nel lungo periodo (più di un secolo) il riformismo storico è riconoscibile anche al di là dei riformismi determinati senza trascolorare nel riformismo eterno, cioè nel riformismo astorico. Ho scritto due libri su problemi di storia del riformismo. So bene che è poco elegante autocitarsi, ma penso si debba fare chiarezza sul fatto che considerare del tutto astoriche le categorie su cui Mauro costruisce le sue 200 pagine, non è certo motivato da «odio nei confronti del riformismo».

Ho scritto che, nella prospettiva di una storia del riformismo costruita tramite analisi dei riformismi determinati, «appare fondata la seguente tesi: nella lunga storia del movimento socialista ed operaio il riformismo è stato l’ordinaria normalità, la normalità strutturale, delle pratiche organizzative e politiche. Le rivoluzioni in atto, non il discorso sulla rivoluzione, ne sono state le contingenze extraordinarie, le cesure dell’ordinario svolgimento strutturale»[13].

Per comprendere la nascita dei partiti comunisti in Occidente come problema storico, bisogna entrare, con la «la lama affilatissima della consapevolezza critica», nella «immensità degli eventi» rivoluzionari, come li definisce Pasternak[14], nei mille fili che, anche contraddittoriamente, compongono il nodo di un fenomeno «mai visto nella storia», come lo definisce Gramsci nella nota lettera al PCUS del 1926. Entrare cioè nei meandri di quella che ho chiamato extraordinarietà.

Nel primo dopoguerra la rivoluzione era all’ordine del giorno, e non perché fosse nella testa degli «estremisti» del socialismo, ma perché era nelle cose. La rivoluzione non era un mito, ma un fatto. Dalla fine della guerra alla metà degli anni Venti rivoluzione e contrivoluzione, qualche volta preventiva, rapprentano il connettivo della lotta politica e sociale in Europa anche al di fuori della guerra civile russa: in Germania, Italia, Ungheria e parte dell’Europa centro orientale. La politica è ormai guerra non metaforica. L’esperienza della guerra appena alle spalle «si ripercosse nella sfera politica: se era lecito condurre la guerra senza riguardo per il numero delle vittime e a ogni costo, perché non fare altrettanto anche nella lotta politica?»[15]. «Il mare di sangue raggiungerà ciascuno e inonderà anche chi prevedendolo si era messo al riparo. La rivoluzione è questa inondazione»[16]. L’Europa centrale e occidentale, sia pure in assai diversa misura, non vi sfuggirono. Soprattutto, però, la rivoluzione dell’arretratezza parlò alle aree arretrate del mondo, in gran parte coloniali, determinando in profondità la storia del secolo breve.

Di fronte a fenomeni di tale «immensità», di cui la fondazione del PCdI è un aspetto, le 200 pagine di Mauro sono, in fondo, esempio di rassicurante fiducia nel nocciolo razionale delle rivoluzioni, se si riesce a salvaguardarle dall’irrazionalità degli slittamenti. Come quella francese nel periodo giacobino, così su scala enormemente più grande, la rivoluzione russa «viene trascinata dalla guerra e dalla pressione popolare fuori della strada tracciata dall’intelligenza e dalla ricchezza del XVIII secolo. Torna in superficie una passione egualitaria…». Il mito dell’uguaglianza contro la strada della modernità. Capitalismo, borghesia non sono nient’altro che «l’altro nome della società moderna»[17]. Non è una strada è la strada, non ci sono alternative.

È «l’avventura bolscevica» ad impedire che la rivoluzione russa segua «la traiettoria democratica»[18], connessa per natura alla strada tracciata dall’intelligenza e dalla ricchezza del XVIII secolo. Sono gli scissionisti seguaci dei bolscevichi che, in odio al riformismo, finiranno per favorire l’avvento del fascismo in Italia.

Tutto ciò non ha niente a che vedere con gli «studi seri», ma è un racconto che si inserisce perfettamente nel clima politico-culturale de La democrazia dei followers, così come viene analizzata da un bel libro, serio e di storia[19].

Paolo Favilli

[1] David Harvey, La crisi della modernità, EST, Milano 1997 pag.250
[2] G. Tonelli, cit. pag.60
[3] P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano 2003 pag.93
[4] G. Tonelli, cit. pag.74
[5] J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1986 pag.172
[6] B. Russell, Misticismo e Logica, Longanesi, Milano 1980 pag. 55
[7] G. Tonelli, cit. pag,24
[8] D. Cantimori, rec. a Carlo Antoni, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella dottrina di Marx, in Considerazioni su Hegel e Marx, Napoli, Ricciardi, 1946, pp. 35-59, in «La Rinascita», 1946, pp. 174-175. La cit. p. 174.
[9] B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1966La cit. p 15. (I. ed. 1938)
[10] D. Cantimori, Storia e storiografia in Benedetto Croce, in Idem, Storici e storia, Torino, Einaudi, 1971, pp. 397-409. La cit. p. 406.
[11]  B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 11
[12]E. Mauro, La dannazione 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo, Milano, Feltrinelli, 1920. Le cit. pp. 9, 12, 15.
[13] P. Favilli, Riformismo alla prova ieri ed oggi, Milano, FrancoAngeli, 2009, p. 13.
[14]B. Pasternak, Il dottor Zivago, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 231.
[15] E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995, p. 39.
[16] B. Pasternak, Il dottor Zivago, cit., p, 237.
[17] F. Furet, D. Richet, La rivoluzione francese, Bari, Laterza, 20035, p. 309. Il corsivo è mio.
[18] E. Mauro, La dannazione 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo, cit., pp. 14 e 66.
[19] A.M. Banti, La democrazia dei followers, Bari-Roma, Laterza, 2020.

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