La città come ultima difesa e ultima speranza
Micromega, 10 maggio 2018
Rileggiamoli insieme
Henry Lefebvre, “Il diritto alla città”, Ombre Corte, Verona, 2014 (ed. or. “Le droit à la ville”, editions Anthropos. Parigi, 1968)
David Harvey, “Città ribelli”, Il Saggiatore, Milano, 2013 (ed. or. “Rebel cities”, Verso Books the imprint of The New Left Brooks 2012)
Il libro di Henry Lefebvre “Il diritto alla città” indicava, cinquant’anni fa, le componenti essenziali di una vita urbana diversa e alternativa: il diritto per tutti di appropriarsi della città, di usarla senza esclusioni né preclusioni, di avere incontri, occasioni, avventure; e il diritto di tutti all’autogestione e alla partecipazione alle decisioni sulle trasformazioni e sul governo della città. Lo slogan di Lefebvre ebbe notevole fortuna negli anni immediatamente successivi (il ’68, più o meno “lungo” nei vari Paesi), per poi declinare nel corso degli anni Settanta e definitivamente negli anni Ottanta. Dopo una lunga eclissi, il pensiero di Lefebvre è stato reinterpretato da David Harvey, che nel suo libro “Città ribelli” (2012) scrive:
“Il diritto alla città… è molto più che un diritto di accesso individuale o di gruppo alle risorse: è il diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze. Inoltre, è un diritto più collettivo che individuale, dal momento che ricostruire la città dipende inevitabilmente dall’esercizio di un potere comune sui processi di urbanizzazione”.
La lettura dei due testi ci stimola all’analisi di quanto sta accadendo nei movimenti sociali urbani e ci fa capire meglio sintomi e ragioni, negli anni della globalizzazione neoliberista, sia della rinascita dello slogan sul “diritto alla città” sia della frammentazione e della volatilità dei movimenti della protesta democratica e antiliberista. Tema decisivo se, come noi pensiamo, la città è l’ultima difesa e l’ultima speranza.
“IL DIRITTO ALLA CITTA’” DI HENRY LEFEBVRE
Henry Lefebvre (1901-1991), francese, è stato un filosofo e sociologo dell’urbano, la cui elaborazione ha attraversato tutto il dibattito culturale del Novecento. Sulla scia di Karl Marx e Friedrich Engels ha sempre cercato di unire “teoria” e “prassi”. Questa prospettiva consente a Lefebvre di arrivare a una teoria generale della politica passando per la questione urbana e “spaziale” e per la vita quotidiana: la città e lo spazio urbano sono il suo punto di osservazione e di partenza per aggiornare l’analisi marxista della società contemporanea.
Nell’ambito del pensiero marxista, Lefebvre è il primo a occuparsi della questione urbana. Lo fa in numerosi testi, tra i quali il più significativo è probabilmente “Il diritto alla città” (1968), preceduto dal volume sulla Comune di Parigi (1965) e seguito da “La rivoluzione urbana” (1970), “Dal rurale all’urbano” (1970), “Spazio e politica” (1972), conosciuto anche come il secondo volume di “il diritto alla città”, “Il marxismo e la città” (1972) e “La produzione dello spazio” (1974).
In “Il diritto alla città” Lefebvre sostiene che il capitalismo industriale ha costruito un progetto unitario per la città e ha migliorato le condizioni igieniche di alcuni quartieri, ma ha fatto perdere alla città tradizionale il suo senso generale, devastandola e portandola all’”implosione-esplosione”. L’avvio del processo di industrializzazione, con il suo orientamento verso il denaro, ha generato un’urbanizzazione che ha subordinato il valore d’uso a quello di scambio e ha rotto l’equilibrio tra l’”opera” e il “prodotto” sottomettendo completamente la prima al secondo.
Leggiamo l’autore:
“L’industria può fare a meno della città antica (preindustriale, precapitalista) ma solo a patto di costruire agglomerati nei quali il carattere urbano si deteriora… laddove continua a esistere una rete di antiche città, l’industria va al suo assalto, se ne impadronisce, riorganizzandola secondo i propri bisogni; essa aggredisce anche la città (ciascuna città), la prende d’assalto, la conquista, la saccheggia. E, impadronendosene, tende a spezzarne i nuclei antichi. Il che non impedisce l’estensione del fenomeno urbano, città e agglomerati, città operaie, sobborghi”.
Con l’industrializzazione-urbanizzazione emerge la “crisi della città”, che perde la sua identità e il suo significato. Viene in piena luce la contraddizione tra il valore d’uso (la città e la vita urbana, il tempo urbano, l’opera umana) e il valore di scambio (la mera merce, gli spazi acquistati e venduti, il consumo dei prodotti, dei beni, dei luoghi e dei segni, il prodotto umano). In opposizione alla città capitalista organizzata in base allo scambio, che esclude alla radice i cittadini da ogni processo decisionale, Lefebvre esalta il valore sociale della città, la possibilità di usare lo spazio in maniera libera e condivisa, all’insegna dell’autogestione, dell’incontro e della festa: “La città e la realtà urbana dipendono dal valore d’uso. Il valore di scambio e la generalizzazione della merce prodotta dall’industrializzazione tendono a distruggere, subordinandole a sé, la città e la realtà urbana, ricettacoli del valore d’uso, germogli di una virtuale predominanza e di una rivalutazione dell’uso”. Per Lefebvre la natura dello spazio urbano ruota non solo attorno al rapporto tra valore d’uso e valore di scambio, ma anche a quello -del tutto connesso- tra “opera” e “prodotto”. L’”opera” è unica e insostituibile, creata da un processo che implica lavoro ma anche arte e creatività; il “prodotto” è invece ripetibile e serializzato, frutto di un processo in cui domina il lavoro. “La città -scrive l’autore- è opera, più simile a quella artistica che al semplice prodotto materiale” , è frutto della capacità creativa diffusa nella comunità e della pratica sociale. Contro la città “opera” si è sviluppata la città “prodotto”, standardizzata e serializzata, in cui l’uomo non ha possibilità di incidere.
Il diritto alla città è quindi “diritto alla vita urbana, trasformata e rinnovata” , diritto di uso, cioè alla fruizione, e diritto di “opera”, cioè all’attività partecipante, diritto di godere di uno spazio che può essere modificato dall’uomo. Leggiamo l’autore:
“In condizioni difficili, all’interno di una società che non potendo opporsi a essi in maniera esplicita ne ostacola il cammino, si fanno strada diritti che definiscono la civiltà (nella, ma spesso contro la società – per mezzo, ma spesso contro la ‘cultura’). Prima di entrare in un codice formalizzato questi diritti non riconosciuti diventano a poco a poco consuetudinari. Potrebbero cambiare la realtà se diventassero una pratica sociale: diritto al lavoro, all’istruzione, all’educazione, alla salute, all’abitazione, al tempo libero, alla vita. Tra questi diritti in formazione vi è anche il diritto alla città (non alla città antica, ma alla vita urbana, alla centralità rinnovata, ai luoghi d’incontro e di scambio, ai ritmi di vita e ai modi di utilizzare il tempo che consentano un uso pieno e completo di momenti, luoghi, ecc.). La proclamazione e la realizzazione della vita urbana come regno dell’uso (dello scambio e dell’incontro liberati dal valore di scambio) richiedono il pieno controllo della sfera dell’economico (del valore di scambio, del mercato e della merce) e dunque si inscrivono nelle prospettive della rivoluzione sotto l’egemonia della classe operaia”.
Il diritto alla città affonda le radici nella riflessione di Lefebvre sul tema della festa, intesa come una sorta di diritto a una vita quotidiana non alienata:
“I vari elementi di un’unità superiore, i frammenti e gli aspetti della ‘cultura’, l’educativo, il formativo e l’informativo si possono unire. Da dove trarre il principio di tale unione e il suo contenuto? Dal ludico. Il termine va qui inteso nella sua accezione più ampia e nel senso più ‘profondo’. Lo sport è ludico, il teatro è ludico, in modo più attivo e coinvolgente del cinema. I giochi dei bambini, ma anche degli adolescenti, non vanno sottovalutati. Le fiere e i giochi collettivi di tutti i tipi persistono negli interstizi della società di consumo governata, nei buchi della società seria, che si vuole strutturata e sistematica, che pretende di essere tecnologica. Quanto agli antichi luoghi di riunione, essi hanno in gran parte perduto il loro senso, come ad esempio la festa, che muore o si allontana. Il fatto che essi ritrovino un senso non impedisce la creazione di luoghi consoni alla festa rinnovata, legata essenzialmente all’invenzione ludica”.
Nella “centralità ludica” il “serio” è subordinato al gioco, non viceversa. In questo modo, sostiene Lefebvre, gli elementi “culturali” vengono recuperati restituendoli alla loro verità.
La proposta di Lefebvre è quindi innovativa rispetto alla concezione welfarista in voga negli anni in cui scriveva. Altrettanto innovativa è la sua intuizione di considerare come soggetto della rivoluzione non solo la classe operaia ma anche tutti i lavoratori precari e gli abitanti -immigrati compresi- delle periferie, che patiscono la segregazione sociale dei sobborghi: la più generale “classe urbana”. Questa intuizione è del resto coerente con le antitesi centrali nel pensiero di Lefebvre, quelle tra valore d’uso e valore di scambio e tra “opera” e “prodotto”, e con la tesi del diritto alla città come base della rivoluzione.
“CITTA’ RIBELLI” di DAVID HARVEY
David Harvey, nato nel 1935, è un geografo, sociologo e politologo inglese. Tra i suoi libri tradotti in italiano “Città ribelli” è il più noto. Tra i precedenti citiamo “L’esperienza urbana” (1998); “La crisi della modernità” (2002); “La guerra perpetua” (2006); “Breve storia del neoliberismo” (2007); “Neoliberismo e potere di classe” (2008); “L’enigma del capitalismo” (2011); “Introduzione al Capitale. 12 lezioni al primo libro” (2012); “Il capitalismo contro il diritto alla città” (2012) e “Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo” (2014). Anche il pensiero di Harvey si muove nel solco di quello di Karl Marx.
Il richiamo di Harvey a Lefebvre è esplicito fin dall’inizio, a partire dalla questione del soggetto rivoluzionario:
“Lefebvre comprese molto bene, dopo il lavoro sulla Comune di Parigi pubblicato nel 1965 (e ispirato in una certa misura alle tesi situazioniste), che i movimenti rivoluzionari spesso, se non sempre, assumono una dimensione urbana. Ciò lo pose immediatamente in conflitto con il Partito comunista, che riteneva invece il proletariato di fabbrica la vera forza trainante del cambiamento rivoluzionario. Commemorando il centenario della pubblicazione del ‘Capitale’ di Marx con un pamphlet sul ‘Diritto alla città’, Lefebvre intendeva chiaramente provocare il pensiero marxista tradizionale, che mai aveva attribuito grande rilievo alla dimensione urbana nella strategia rivoluzionaria, pur mitizzando la Comune di Parigi quale evento centrale della propria storia. Anche quando, in quel testo, Lefebvre invocava la classe operaia come agente del cambiamento rivoluzionario, in realtà lasciava intendere che la classe operaia rivoluzionaria era costituita da lavoratori urbani piuttosto che esclusivamente da operai. Si trattava, osservò più tardi, di una formazione di classe davvero diversa -frammentata e divisa, animata da finalità e bisogni molteplici, più itinerante, disorganizzata e fluida che solidamente centrata”.
“Città ribelli” inizia con una riflessione sul ruolo delle città nel capitalismo. L’urbanizzazione ha sempre avuto la funzione di reinventare modi per assorbire le eccedenze prodotte dalla continua ricerca di plusvalore, al prezzo di violenti processi di distruzione creatrice che hanno espropriato le masse di ogni possibile diritto alla città: dalla Comune di Parigi alla crisi immobiliare e finanziaria del 2007-2008.
Harvey analizza come le città non servano solo a generare surplus ma anche a disporne. L’eccedenza prodotta dalla concorrenza capitalista deve essere assorbita da qualche parte, e gli investimenti nel rinnovamento urbano e nella speculazione edilizia hanno questa funzione. Inoltre questa tipologia di investimenti permette di ottenere rendimenti sul capitale investito modulandoli nel tempo. Il capitalismo, sostiene Harvey, riproduce di continuo il surplus produttivo richiesto dall’urbanizzazione. Ma vale anche il contrario: il capitalismo necessita di processi urbani per assorbire l’eccedenza di capitale che costantemente produce. Tra lo sviluppo del capitalismo e l’urbanizzazione emerge un’intima connessione.
Harvey ne conclude che: “Se l’urbanizzazione capitalista è così profondamente radicata ed essenziale per la riproduzione del capitale, ne consegue che forme alternative di urbanizzazione devono per forza essere altrettanto essenziali per qualsiasi ricerca di un’alternativa anticapitalista”.
In “Città ribelli” vengono poi raccontati diversi episodi di lotta di classe urbana. L’origine di queste lotte è la Comune di Parigi del 1871;
“La classe operaia industriale è stata tradizionalmente concepita come avanguardia del proletariato, suo principale agente rivoluzionario. Eppure, non sono stati gli operai di fabbrica a dare vita alla Comune di Parigi. Esiste per questo un’interpretazione alternativa della Comune che sottolinea come non si sia trattato di una rivolta proletaria o di un movimento di classe, ma di un movimento sociale urbano che rivendicava diritti di cittadinanza, e più in generale un diritto alla città. E quindi non di una lotta anticapitalista. A mio avviso, invece, non esiste alcuna ragione per non interpretare quell’evento come espressione sia di una lotta di classe sia di una lotta per i diritti di cittadinanza nello spazio abitato e vissuto dai lavoratori”.
E ancora:
“A tal proposito mi sembra che abbia un certo valore simbolico il fatto che i primi due atti della Comune di Parigi siano stati l’abolizione del lavoro notturno nei forni (una questione lavorativa) e l’imposizione di una moratoria sulle rendite (una questione urbana)”.
Gli attori della lotta includono i lavoratori, ma anche molte altre categorie di cittadini urbani emarginati, alienati dai beni comuni, sia dal lavoro che dalla città. L’implicazione strategica è che la lotta di classe deve essere condotta al di là delle mura della fabbrica. Harvey sostiene che la maggior parte delle lotte sindacali sono sempre state condotte fuori dalla fabbrica:
“Per portare avanti le lotte dei lavoratori, l’organizzazione di quartiere si è rivelata tanto importante quanto quella sui luoghi di lavoro”.
L’autore fa sua la tesi di Bill Fletcher e Fernando Capasin, secondo cui il movimento operaio dovrebbe prestare maggiore attenzione alle forme di organizzazione geografiche piuttosto che a quelle settoriali e dovrebbe dare più forza ai consigli operai radicati nelle città, oltre a organizzarsi nei diversi settori lavorativi.
Inizia in questo modo a dissolversi ogni distinzione tra lotte per il lavoro e lotte per i diritti di cittadinanza. Come del resto già in Lefebvre, per il quale il diritto alla città è anche diritto alla cittadinanza attiva, con la classe urbana, non solo la classe operaia, nel ruolo di soggetto rivoluzionario.
Harvey cita Occupy Wall Street e la sua capacità, in una fase, di saper costruire un ponte, una coalizione antiliberista tra i luoghi di lavoro e la comunità. Ma rileva che, anche se i movimenti e le esperienze di resistenza locale sono quelli che hanno avuto maggiore successo, è però indispensabile un salto di scala per superare volatilità e frammentazione. Ed è con le domande su come costruire reti di città e coalizioni sociali e politiche su piani diversi fino a quello nazionale e sovranazionale, e su come unire le forze sociali che la crisi e la sua gestione da parte del neoliberismo hanno invece diviso, che il libro si conclude, in modo problematico. La stessa problematicità della domanda chiave espressa da Harvey in un’intervista a “Micromega”: “Sono molto serio nel porre la domanda: come si mobilita un’intera città? Perché è nella città che sta il futuro politico della sinistra”.
INIZIO E FINE DEL “DIRITTO ALLA CITTA’” NEL NOSTRO PAESE
Il mio amico Edoardo Salzano, grande urbanista e instancabile attivista per il “diritto alla città”, ha ricordato il ruolo di Lefebvre in Italia negli anni successivi al ’68:
“Furono anni di tumultuosa trasformazione del nostro paese. Anni di cambiamenti della vita sociale, economica, politica, culturale, e anni di grandi riforme: riforme vere, riforme della struttura, e non riformicchie come quelle di cui si parla da qualche decennio. Di quegli anni vorrei ricordare soprattutto due cose: il ruolo delle forze sociali, le conquiste ottenute. Il diritto alla città come rivendicazione, e il diritto alla città come norma”.
Poi Salzano entra nel dettaglio:
“Con la ‘legge ponte’ urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottennero in Italia:
– la generalizzazione della pianificazione urbanistica,
– il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio,
– l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici.
Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), del 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), del 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), del 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati)si ottenne la possibilità:
– di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo,
– di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città,
– di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.
E indicherei come coda di questo periodo nei successivi, terribili anni Ottanta, alcune ulteriori importanti conquiste normative, quali le leggi per la tutela del suolo e delle acque e per la tutela del paesaggio. Di fronte alle catastrofi di questo novembre (2012, NdR) vorrei ricordare il principio, implicito in queste ultime due leggi, secondo il quale la definizione normativa delle condizioni necessarie per garantire l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio devono avere la priorità sulle scelte di trasformazione, quindi sui piani urbanistici e sulle pratiche edilizie. Principio che fu da subito disatteso e contraddetto”.
Molte altre furono le conquiste sociali e democratiche di quegli anni.
Poi ci fu la grande svolta negli anni Ottanta: il neoliberismo, il finanzcapitalismo di cui ha scritto Luciano Gallino. Che comportò un arretramento in tutti i campi, compreso quello delle città. Cominciarono gli anni del privato, del mercato, del trionfo della rendita immobiliare. Quelli così ben descritti e spiegati, su scala più ampia, dal libro di Harvey.
RIPARTIAMO DALLA PIANIFICAZIONE
La riflessione sui testi di Lefebvre e di Harvey spinge a tentare di ripristinare il perduto “diritto alla città”. Per farlo non si può che ripartire da ciò che è stato negato in tutti questi anni, cioè dalla pianificazione: “sociale”, diceva Lefebvre, “strategica” e “urbanistica”, aggiungiamo noi. Una pianificazione che si richiami ai tanti esempi che Harvey porta in “Città ribelli” di azioni per il diritto alla città, riformiste o rivoluzionarie (a volte, per sua stessa ammissione, non facilmente distinguibili tra loro): dal bilancio partecipativo di Porto Alegre alla pianificazione strategica nella Londra di Ken Livingstone, dai programmi ecosostenibili di Curitiba alla ribellione di El Alto. Ed è significativo che Harvey affianchi a questi esempi, più volte, le sperimentazioni politiche e sociali della “Bologna rossa” negli anni Sessanta e Settanta.
Pianificazione “strategica” e “urbanistica”, dicevamo. Si tratta di azioni diverse, di carattere discorsivo e procedurale la prima, normativo la seconda, ma complementari tra loro e non alternative. La seconda va considerata strumento utilizzabile all’interno della prima, che ne costituisce la cornice.
Lo sguardo delle due forme di pianificazione deve cogliere oggi l’elemento che più ha caratterizzato la polis nel mondo greco e poi, dal Medioevo, la città europea: lo spazio pubblico. È l’espressione più originale, l’ossatura portante, l’essenza della città come polis. Si pensi al ruolo della piazza nella storia: luogo dell’incontro tra le persone, ma anche spazio sul quale si affacciavano gli edifici principali, destinati allo svolgimento delle funzioni comuni. Poi, nelle città del capitalismo e delle fabbriche, sono stati realizzati i servizi pubblici del welfare. Tra cui la stessa casa, concepita come servizio sociale (la “casa popolare”). Salzano ha ricordato, nel testo citato, che negli anni Settanta si raggiunsero, dal punto di vista della città come spazio pubblico, risultati importanti, e che gli anni Ottanta, invece, furono quelli della svolta neoliberista e del conseguente inizio del declino della città pubblica. Il carattere pubblico della città viene da allora negato in tutti i suoi elementi. Le politiche urbanistiche di tutti questi anni hanno ripudiato l’idea di città come luogo e patrimonio collettivo e hanno spinto per valorizzare la rendita fondiaria e favorire la bolla immobiliare.
Per riconquistare lo spazio pubblico occorre riconquistare la dimensione sociale della pianificazione. Avendo al fianco tutti quei cittadini che più che in passato si organizzano per difendere o ottenere un parco, un servizio di prossimità, uno spazio a uso collettivo, per conservare nel tempo quegli spazi pubblici considerati beni comuni a tutela della qualità della vita delle future generazioni. La sfida per la pianificazione è davvero formidabile. Occorre un suo forte riequilibrio in favore del governo pubblico. Nei Piani strategici e urbanistici devono intervenire nuovi contenuti: controllo dell’espansione metropolitana, spazi pubblici, ambiente, mobilità, risparmio energetico, edilizia sociale e stop al consumo di suolo come obbiettivi compatibili tra loro (grazie al recupero edilizio).
Questi sono i nuovi temi per nuovi Piani strategici e urbanistici che si pongano l’obbiettivo del diritto alla città.
Ma per far vivere questi temi, e questi piani, serve ricercare, fare riemergere e valorizzare quella cultura urbana e dei territori che in Italia ha subito colpi molto duri. E farlo nel segno del “nuovo municipalismo” di cui parla l’alcaldesa di Barcellona Ada Colau. Dipende dalla politica ma anche dalla società civile, che deve battersi per riappropriarsi delle scelte collettive. Come sempre, molto dipende da noi stessi, dal cambiamento personale. David Harvey, in “Città ribelli”, scrive:
“La domanda sul tipo di città che vogliamo non può… essere separata da altre domande, sul tipo di persone che vogliamo essere, sui legami sociali che cerchiamo di stabilire, sui rapporti con l’ambiente naturale che coltiviamo, lo stile di vita che desideriamo e i valori estetici che perseguiamo”.
C’è quindi bisogno di cittadini che si impegnino, non solo di uomini politici che sappiano interpretarli e rappresentarli. Il punto di partenza siamo noi. Dall’alto dei poteri costituiti, in questa fase, non giungono segnali. La possibilità di opporsi, e di cambiare, oggi è legata a un filo molto tenue: quello dei movimenti sociali descritti da Harvey, pur fragili e discontinui che siano. Una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e cercano di trasformarsi in luoghi di autorganizzazione e in presidi associativi di protesta e di proposta. La politica dei partiti non si autoriforma da sola. La politica dei partiti si autoriforma solo se nascono forze dentro di essi che vengono aiutate e sospinte da qualcosa che si muove nella società civile, che è un luogo di autoproduzione della politica. I cambiamenti radicali che sono necessari non si possono fare senza un impegno dei cittadini in prima persona.
I libri di Lefebvre e di Harvey ci spiegano che serve un soggetto del cambiamento decisamente più ampio. Lo sappiamo. Ma non sappiamo bene come arrivarci. Sappiamo, però, che la rivendicazione del diritto alla città da parte dei movimenti sociali, dei luoghi di autorganizzazione e dei presidi associativi non è “una” ma “la” stazione del lungo viaggio che deve condurci a questo obbiettivo. E’ l’ultima difesa e l’ultima speranza.
Giorgio Pagano
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