Il Piano Solo e la strategia della tensione: botta e risposta tra Mario Segni e Giorgio Pagano
“Dipingere uno stato dominato da stragisti e servizi segreti deviati è una gigantesca mistificazione della realtà”. Mario Segni risponde alle critiche di Giorgio Pagano al suo libro sul “Piano Solo” (“Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news”). La replica di Pagano: “La strategia della tensione non è una fake news”.
Mario Segni / Giorgio Pagano
MicroMega.net 22 Ottobre 2021
Ringrazio MicroMega e Giorgio Pagano per l’attenzione prestata al libro che ho scritto sulle vicende del 1964 e per gli apprezzamenti personali. Il tema è importante, e voglio tornare con molta chiarezza al punto centrale.
Qualche mese fa Mattarella ha espresso un concetto che condivido in pieno. Riferendosi in particolare agli anni del terrorismo, ha detto che sarebbe molto importante se l’Italia riuscisse a elaborare su queste difficili e dolorose vicende una coscienza comune. È giusto. Ma questo non sarà possibile sino a che sul periodo in questione, cioè i decenni ‘60 e ‘70, continuerà ad essere tramandata una narrazione completamente fuorviante, che dà dei due maggiori partiti, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, una immagine inaccettabile.
Muovendo dalla teoria del “doppio Stato” una larga corrente ha dipinto la Democrazia Cristiana come il partito votato alla difesa del mondo occidentale e dei poteri forti italiani, e disposto a difendere tutto questo anche con atti eversivi. Ignorando i legami ancora stretti con l’Unione Sovietica, il PCI di converso è stato visto come l’unico vero difensore della Costituzione. Nella ricostruzione di quel periodo la crisi del 1964 e la vicenda del famoso “piano Solo” hanno una importanza fondamentale. La storiografia di cui parliamo vede infatti nelle vicende del 1964 il primo caso in cui la destra usa la pressione militare per sbarrare la strada all’avanzata delle sinistre. Anche Pagano sostiene esplicitamente il collegamento tra i due fatti. Si tratterebbe dunque del primo atto della “strategia della tensione” messa in atto negli anni successivi, in cui il blocco politico incentrato sulla DC ricorre ad ogni mezzo per conservare il potere. Ecco perché riscrivere i fatti del ‘64 è la premessa per comprendere anche gli anni successivi.
Per quel che attiene al ‘64, mi sembra difficile negare che un esame sereno (e ormai dopo tanti anni questo è possibile) conduca alla conclusione che nulla, insisto nulla, di eversivo è mai stato fatto o tentato; e che dunque la tesi del colpo di stato, o del complotto, o della minaccia militare, in ogni caso di comportamenti eversivi diretti a forzare e modificare il corso della politica, è del tutto infondata. Non vi è bisogno di nuovi documenti per dimostrarlo. Perché sono i fatti noti, gli eventi pubblici a dirlo, ed è solo con una autentica mistificazione (non è possibile definirla in altro modo) che si è fatto credere il contrario. Il caso più impressionante è quello di Pietro Nenni, indicato da storici e pubblicisti come colui che primo aveva denunciato il pericolo, aveva “udito il tintinnar di sciabole”. Nenni difende appassionatamente il centro sinistra e attacca duramente tutti quelli, compreso il Presidente della Repubblica, che lavorano per interromperlo. Ma in tutte le occasioni, L’Avanti, il diario, la deposizione in Tribunale, gli interventi alla commissione di inchiesta e alla commissione stragi, i ricordi nel libro di Tamburrano, esclude recisamente ogni minaccia esterna: “Non ci furono minacce di colpo di Stato e non si fece in nessun momento pesare su di noi una tale minaccia. È la pura e semplice verità”. È ciò che ripete in tutti i suoi interventi.
È proprio il comportamento dei protagonisti di quei fatti, e soprattutto dei vertici del centro sinistra, a rendere incredibile il racconto scalfariano. Due anni dopo la crisi, nel 1966, De Lorenzo viene nominato capo di stato Maggiore dell’Esercito. Saragat è succeduto a Segni alla presidenza della Repubblica. Moro e Nenni sono presidente e vice del Consiglio. Ai vertici dello Stato sono quindi gli uomini che, secondo l’Espresso, due anni prima sarebbero stati minacciati di golpe da De Lorenzo. È pensabile che diano a un golpista la carica più prestigiosa dell’esercito? È sostenibile che statisti di quel livello abbiano incoronato chi aveva complottato contro lo Stato? Non è insultante verso Moro e gli altri attribuire loro questo fatto?
Altrettanto sconcertante è la disinvoltura con la quale sono stati ignorati i procedimenti giudiziari, e soprattutto gli argomenti usati per detronizzare la clamorosa sentenza che con una lapidaria motivazione condannò Scalfari e Jannuzzi. Per decenni alla sentenza fu negato ogni valore morale e storico perché gli omissis, messi ampiamente su tanti documenti, avrebbero impedito ai giudici l’accertamento della verità. Ma nel 1990 tutti gli omissis sono stati tolti e i documenti desecretati. E non c’è un solo documento a riprova, anche lontana, delle accuse lanciate col famoso scoop.
C’è poi tutta una interpretazione del quadro economico e politico che va riesaminata. I duri contrasti che si accesero sulla crisi economica scoppiata nel ‘64 e sui modi di affrontarla sono stati sbrigativamente giudicati come una reazione del mondo imprenditoriale e dei poteri forti alle rivendicazioni sindacali e alle proposte dei socialisti di nuove riforme. Ma un esame più approfondito, che solo ora sta iniziando, ci dice invece che si trattò di una crisi di ampie proporzioni che avrebbe potuto avere conseguenze gravissime. Si spiegano così i ripetuti interventi del governatore della Banca d’Italia Guido Carli (non tacciabile certo di uomo di destra) e del Presidente della Repubblica, che quale difensore della Costituzione si ergeva a difensore della iniziativa privata e della adesione all’Europa. La crisi del centro sinistra non nasce quindi da oscure trame, ma dalla sua incapacità a governare il progresso economico, dalle reazioni che questo suscitò in larga parte del paese e non solo nella destra economica e politica, dall’atteggiamento della Commissione europea che poco prima dell’apertura della crisi aveva espresso tramite il suo vicepresidente Marjolin i suoi richiami e le sue preoccupazioni. Lo stesso Pagano ricorda che nella sua prefazione Agostino Giovagnoli rileva che a questo punto l’errore della sinistra fu quello di non ammettere gli errori e trarne le conseguenze, ma rifugiarsi nella complottistica e scaricare le responsabilità sul “grande vecchio” di turno.
Naturalmente poiché non coltivo il mito dell’infallibilità sarò ben lieto di rispondere e di discutere con chi sostenesse tesi diverse. Anzi proprio per l’importanza del tema auspico un dibattito ampio. Perché sono evidenti le conseguenze della tesi che credo di avere dimostrato. La narrazione colpevolista di Scalfari ha infatti ottenuto uno straordinario successo mediatico e culturale e ha inciso fortemente sulla politica di quegli anni. Colpevolizzando la DC ha spostato a sinistra il baricentro politico, anche se non è stato mai raggiunto il sorpasso del partito comunista. Dipingendo uno stato dominato da stragisti e servizi segreti deviati ha purtroppo preparato l’humus per l’esplosione del terrorismo rosso, perché, come ha scritto Paolo Mieli, ha legittimato l’idea che “allo stato violento si risponde con la violenza”. Siamo in presenza quindi di una gigantesca mistificazione della realtà che per decenni ha dominato il mondo mediatico e la narrazione storica. Il termine “fake news” può non piacere ma mi sembra il concetto più adatto a questo fenomeno. Ecco perché la riscrittura non solo della crisi del 1964, ma di tutta la cosiddetta “strategia della tensione” è la premessa necessaria per costruire quella coscienza comune di cui ha parlato Mattarella. Naturalmente so bene quanto è ampio il compito, quanto è difficile scrivere con precisione e rigore una storia complessa come quella degli anni70. Passi avanti sono però stati fatti. Le opere di Vladimiro Satta, e in particolare “I nemici della Repubblica”, studioso scrupoloso maturato nelle commissioni di inchiesta parlamentari, sono di una precisione difficilmente confutabile, anche se la storiografia ufficiale fa di tutto, non per contestarlo, cosa difficile, ma per ignorarlo. È solo un dibattito aperto e franco che può chiarire le cose.
Mario Segni
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Mario Segni sfugge, nel suo libro come nell’articolo su MicroMega, alla questione di fondo: molta documentazione, innanzitutto di fonte democristiana, dimostra che nel 1964 il capo dello Stato Antonio Segni alimentò il progetto di una minaccia di svolta autoritaria per frenare la spinta riformatrice del centrosinistra e per “normalizzarlo”. Segni non avallò un golpe ma una “intentona”.
In particolare è significativa la testimonianza di Aldo Moro nel Memoriale dal carcere, innanzitutto perché, diversamente da quanto egli aveva dichiarato alla Commissione d’inchiesta parlamentare, conferma che «l’intervento militare» venne utilizzato per «portare a termine una pesante interferenza politica rivolta a bloccare o almeno fortemente ridimensionare la politica di centrosinistra», e rivela che il regista dell’operazione era il Presidente della Repubblica.
Segni fu colpito da un ictus il 7 agosto 1964, e impedito nell’esercizio delle funzioni presidenziali. L’incidente accadde a seguito di un acceso diverbio durante un colloquio con Moro e il Ministro degli Esteri Giuseppe Saragat, che il primo riferì subito dopo al suo collaboratore Corrado Guerzoni. In quella circostanza Saragat avrebbe accusato il Presidente Segni di avere “tramato” con i carabinieri in occasione del Piano Solo, come lo stesso Guerzoni ha raccontato in “Aldo Moro” (Palermo, Sellerio, 2008, pp. 94-95) e sostenuto, con dovizia di particolari, in un’intervista registrata concessa al principale studioso del Piano Solo, Mimmo Franzinelli.
La testimonianza di Moro è assai significativa anche perché indica il centro degli interessi che muovevano tutta la manovra. Mentre il piano di de Lorenzo veniva «messo a punto nelle sue parti operative – scrive Moro – diventavano preminenti gli sviluppi politici a causa di una lettera diffida mandata al Presidente del Consiglio dal Ministro del Tesoro [Emilio Colombo, NdA] circa gli eccessivi oneri finanziari della politica di centrosinistra». A seguito di quella lettera, «mentre si attenuava il significato del golpe in quanto tale, si accentuava la tendenza a diminuire la portata del centrosinistra ed a ridurla, per asserite ragioni finanziarie, ad una normale politica riformistica che anche i liberali, se fossero stati intelligenti, avrebbero potuto accettare». «Il Presidente Segni – conclude Moro – ottenne, come voleva, di frenare il corso del centrosinistra e di innestare una politica largamente priva di novità. L’apprestamento militare, caduto l’obiettivo politico che era quello perseguito, fu disdetto dallo stesso capo dello Stato» (Il memoriale di Aldo Moro. 1978. Edizione critica, Roma, Direzione generale degli Archivi, 2019, pp. 331-333).
Rispetto alla ricostruzione prevalente, suscettibile come tutti i tentativi di interpretazione storica di essere oggetto di una costante revisione critica, il libro di Mario Segni non apporta documenti nuovi, ma semmai una interessante prova di amor filiale.
Moro cedette alla “intentona” avallata da Segni e alla controffensiva di destra (dietro al Ministro del Tesoro c’era il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli) che la affiancò. Cedette anche Nenni, che sulle minacce è esplicito nel suo Diario. Nella fase calda della crisi di governo, il 15 luglio 1964, scrive: «Aspettare è una parola pericolosa. Viene fatto di pensare a Giolitti che nel settembre-ottobre del 1922 aspettava a Vichy la chiamata del re…» (Gli anni del centrosinistra. Diari 1957-1966, a cura di Giuliana Nenni e Domenico Zucaro, Milano, Sugarco, 1982, p. 379). Valutazione consonante, e addirittura più grave, del riferimento al “tintinnio di sciabole”.
Mario Segni ricorda che, nel 1966, il comandante dei carabinieri Giovanni de Lorenzo venne nominato da Moro capo di stato maggiore dell’Esercito. Perché incoronare, domanda, chi aveva complottato contro lo Stato? In realtà de Lorenzo dapprima ruppe con Moro, lusingato dalla fiducia del capo dello Stato, ma poi trattò con lui mantenendo nel contempo i rapporti con Segni, come ha spiegato Franzinelli: tra i due vi fu probabilmente «l’intesa su reciproche garanzie: la rivelazione del Piano Solo con l’impegno a evitarne l’attuazione; la disponibilità del Presidente del Consiglio ad agevolare la carriera del generale» (Mimmo Franzinelli, Il Piano Solo, i servizi segreti e il “golpe” del 1964, Milano, Mondadori, 2021, p. 96). Come puntualmente avvenne.
Ancora: Segni insiste sulla condanna dei giornalisti Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi nel processo per diffamazione del 1968 e dice che non ha senso criticare i limiti al diritto di difesa e gli omissis di allora, perché nel 1990 gli omissis furono tolti e i documenti desecretati. Ma molti furono distrutti: tra cui le liste degli “enucleandi”, i 731 “sovversivi” che avrebbero dovuto essere internati a Capo Marrargiu, in Sardegna, nella base di addestramento della struttura atlantica Gladio. Reperimenti parziali di archivio hanno rivelato che, insieme ai politici e ai giornalisti, nelle liste erano presenti anche personalità della cultura di sinistra quali i registi Pier Paolo Pasolini e Gillo Pontecorvo, gli storici Aldo Garosci e Enzo Santarelli, il critico d’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, il cattolico fiorentino Mario Gozzini.
Ma l’argomentazione dell’articolo di Segni ha un segno più ampio: non c’è mai stata – questa in sostanza la sua tesi -– una “strategia della tensione”, «in cui il blocco politico incentrato sulla DC ricorre ad ogni mezzo per conservare il potere». La crisi della sinistra non nasce mai da trame, ma da suoi errori. Credo che occorra un giudizio equilibrato: dietro alla sconfitta dei propositi riformatori negli anni Sessanta e negli anni Settanta «stavano due dati di lungo periodo della storia italiana: il primo consistente nell’insufficienza di una cultura politica della sinistra, incapace di distaccarsi definitivamente dal “campo” sovietico e di animare coalizioni e programmi alternativi; il secondo consistente nella eccezionale resistenza, interna ed internazionale, che il movimento operaio ha incontrato ogni volta che si è avvicinato al governo del Paese» (Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, Volume secondo, La Spezia, Edizioni Cinque Terre, 2021, p. 299).
Di un tentativo, in quegli anni, di «rovesciare l’asse politico del Paese”, ha parlato recentemente proprio il Presidente Mattarella: «L’obiettivo del terrorismo rosso era di approfondire i solchi e le contrapposizioni nella società e nella politica, per spingere, compiendo attentati, il proletariato a fare la rivoluzione, cercando di delegittimare i partiti della sinistra tradizionale, accusati di essersi “imborghesiti”. Il terrorismo nero, accanto a suggestioni nostalgiche di improbabili restaurazioni, è stato spesso strumento, più o meno consapevole, di trame oscure, che avevano l’obiettivo politico di rovesciare l’asse politico del Paese interrompendo il percorso democratico, provocando una reazione che conducesse a un regime autoritario, così come era avvenuto in Grecia». Mattarella ha aggiunto che da parte dello Stato vi fu «impreparazione», ma anche «infedeltà» (Sul terrorismo verità ancora da chiarire. Ora prendere tutti i latitanti, intervista di Maurizio Molinari, “la Repubblica”, 9 maggio 2021).
La gravità del Piano Solo fu nella rivelazione del fatto che nel nostro Paese c’era «una volontà da parte degli attori politici di mobilitare gli apparati dello “Stato duale” per volgere a proprio favore una difficile lotta di potere» (Yannis Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra. 1960-1968, Roma, Carocci, 1999, p. XXXIV). Si aprì un varco a comportamenti non più controllabili, per responsabilità non solo di Segni, ma anche di Moro e di Nenni. La “strategia della tensione” non nacque nel 1964, ma con il Piano Solo ne furono aperte le porte.
Circa le responsabilità delle forze riformatrici, il tema va approfondito. A differenza di quel che scrive Segni, DC, PSI e PCI non erano affatto blocchi monolitici. La spinta per il centrosinistra nacque per impulso delle correnti della DC vicine al riformismo cattolico prima ancora che per impulso del PSI. Antonio Segni, scrive il figlio, «quale difensore della Costituzione si ergeva a difensore dell’iniziativa privata e dell’adesione all’Europa». Ma Segni – e Carli – non coglievano il fatto che non reggeva più il blocco storico creato da De Gasperi, con il suo modello di sviluppo fondato sui “bassi consumi” e sull’utilizzo di manodopera a basso costo come base della buona salute delle imprese. Il centrismo entrò in crisi per questo, non perché non avesse più i numeri in Parlamento. Ed è per questo che il riformismo cattolico preparò il centrosinistra, seguito da quello laico-socialista. Ma, a differenza di quel che temevano Segni e Carli, non solo non c’era nessun Lenin alle porte, non c’era nemmeno una socialdemocrazia avanzata europea, una sinistra libertaria in grado di attuare la Costituzione regolando il mercato. Sia la borghesia che il movimento operaio manifestavano l’arretratezza italiana. La borghesia capitalistica non accettava, come nei Paesi europei più avanzati, il rapporto “contrattualistico” con il sindacato: Carli e Colombo colpirono con la stretta deflattiva il movimento sindacale, cercando di ripristinare il modello degli anni Cinquanta. Specularmente, anche tutti i riformismi, di governo e di opposizione, erano arretrati: sia rispetto alle esperienze di governo delle socialdemocrazie europee, come hanno spiegato, con specificazioni diverse, studiosi come Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo (I comunisti italiani e il riformismo, Einaudi, Torino, 1986) e Giuseppe Vacca (L’Italia contesa. Comunisti e democristiani nel lungo dopoguerra (1943-1978), Marsilio, Venezia, 2018), sia rispetto alla cultura della liberazione e dei diritti della persona umana che emergeva dalle lotte degli anni Sessanta, che mai entrò nel loro patrimonio genetico.
Fu il «fallimento di un progetto», ha scritto Guido Crainz: «Non furono solo le singole riforme a sfumare. Fu il modello riformista in quanto tale a perdere fascino, capacità di attrazione e di mobilitazione: ad apparire perdente e “irrealistico”, e al tempo stesso incapace di trasformare le modalità precedenti della politica. La radice dei processi e dei conflitti successivi (e forse anche del loro esito) sta insomma in larga misura nell’interazione di quegli elementi che appaiono chiaramente nello snodo del 1963-1964» (Guido Crainz, Il Paese mancato, Roma, Donzelli, Roma, 2003, p. 29.)
In quello snodo venne alla luce un meccanismo consueto della politica italiana: l’accesso al potere di nuove forze come cooptazione da parte di chi lo detiene da molto tempo e svuota dall’interno le esigenze di cambiamento di cui quelle nuove forze si fanno portatrici. Il meccanismo che Gramsci definì “rivoluzione passiva”. Alla sua radice vi furono i limiti di cultura politica delle forze riformatrici. Ma la “strategia della tensione” va considerata uno dei suoi fattori. È un intreccio che rivivrà negli anni Settanta.
Dalle sconfitte degli anni Sessanta e Settanta la sinistra cominciò a smarrire i contatti con la società italiana. Sono lì le radici dei fenomeni con cui ancora oggi siamo chiamati a fare i conti. La decadenza della sinistra non è di questi anni. Oggi ne vediamo soprattutto gli effetti. Ma, per tornare a Segni jr, sono lì le radici anche della scomparsa della DC e del popolarismo cattolico e delle mutazioni radicali nella destra italiana, nel segno dell’individualismo privatistico che unisce il berlusconismo e i nuovi reazionari Salvini e Meloni.
Giorgio Pagano
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