Regioni a rischio il centralismo rialza la testa
La Repubblica Il Lavoro – 18 Ottobre 2012 – Ha ragione Claudio Burlando quando su Repubblica dice che “la Liguria non è il Lazio” e che ciò avviene “più che per merito nostro, per il Dna di sobrietà dei liguri” (ma non dimentichiamo che tra i presidenti di Regione abbiamo avuto Alberto Teardo). E tuttavia resta il fatto che le Regioni -purtroppo tutte- sono sempre più l’immagine di un sistema sull’orlo del baratro. Fanno riflettere le parole di uno dei padri del regionalismo, Piero Bassetti: “Si è avverato l’esatto contrario del sogno regionalista, che era un sogno di riscatto: eravamo convinti che la grande corruzione fosse figlia del centralismo e che l’autonomismo potesse essere catartico rispetto alla crisi del Paese”. In realtà la crisi si è aggravata, e c’è da chiedersi che cosa resta dell’idea regionalista e se questa ha ancora un futuro, e quale. I dati sono sconfortanti: nell’ultimo decennio la spesa regionale è fortemente aumentata, così i costi della politica, mentre la pressione fiscale “territoriale” è aumentata senza che diminuisse quella centrale (che anzi è salita ancora). Pierluigi Bersani ha messo in luce i difetti della riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dal centrosinistra nel 2001 in un contesto di subalternità al federalismo leghista: la mancanza sia di “un equilibrio bilanciato tra le responsabilità delle autonomie e il ruolo dello Stato” sia di “una visione e di un disegno organico di riforma”. Si è passati dal troppo poco al troppo, ed è stato incoraggiato il centralismo regionale a scapito dei Comuni. Ne è emblema la definizione di “governatore” per il presidente di Regione, cioè di un ente che non dovrebbe gestire ma programmare.
La prova inequivocabile della crisi profonda del regionalismo sta nel decreto varato dal Governo per ridurre i costi politici delle Regioni (abbattimento del numero dei consiglieri, tagli ai loro compensi e vitalizi, più trasparenza e più poteri di controllo alla Corte dei Conti, ecc): una misura centralista, dovuta all’impossibilità -dichiarata dagli stessi presidenti di Regione- che queste scelte fossero fatte dalle Regioni stesse. Una cessione di autonomia che è il riconoscimento di una sconfitta. Un’altra sconfitta pesante è la presentazione da parte del Governo del disegno di legge per modificare il Titolo V, avvenuta senza alcun confronto con le Regioni.
C’è, però, il rischio di gettare il bambino -l’autonomismo- con l’acqua sporca, che pure è molta, andando verso forme di verticalizzazione statalista che sarebbero sbagliate: uno Stato non si governa solo con le ragioni dell’unità nazionale ma anche con quelle dell’autonomia dei territori. La gestione deve tornare ai Comuni, e non certo passare dalle Regioni allo Stato. Per evitare una nuova centralizzazione non c’è che una strada: le Regioni devono proporre una riforma organica del sistema delle autonomie, d’intesa con Comuni e Province. La stessa cosa deve farla il centrosinistra, per dimostrare di aver capito la lezione del 2001. Una proposta basata su alcuni obbiettivi di fondo: il superamento della frammentazione dei Comuni con le Unioni dei Comuni, perché non regge un sistema che si fonda su 8.000 unità; il ripensamento radicale delle Province, enti intermedi che hanno bisogno non solo di accorpamenti e di elezioni di secondo grado ma anche di definizione chiara delle loro funzioni; il rilancio delle Regioni come enti di programmazione, il che passa anche attraverso la revisione dei loro confini e del numero. Sei Regioni, tra cui la Liguria, hanno meno di due milioni di abitanti, 4 addirittura meno di un milione. No, quindi, a Comuni e a Province ma anche a Regioni “polvere”. E naturalmente lotta senza quartiere alle degenerazioni affaristico-clientelari.
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