Qualità e formazione le uniche due armi per il nostro rilancio
La Repubblica – Il Lavoro 6 ottobre 2011 – La situazione dell’industria nautica italiana è difficile, come ci ha raccontato Repubblica in questi giorni. ”Salvi solo grazie all’export”, dicono gli esperti: è il 67% del fatturato, mentre il mercato interno crolla. Quindi: o le imprese si internazionalizzano o rischiano grosso. Obbiettivo più facile per i grandi che per i piccoli gruppi, che infatti non se la passano tanto bene. In questo contesto è normale che si parli di delocalizzazione, cioè della possibilità che le nostre aziende siano costrette ad andare a costruire le barche direttamente a casa di chi le compra: una prospettiva drammatica per la produzione italiana. Si ritrova la strada del successo, nella nautica come in generale nel Made in Italy, attrezzandosi alla sfida con l’arma della qualità, l’unica che fa la differenza. Significa struttura manageriale delle imprese, loro capacità di lavorare assieme, creazione di reti commerciali “su misura” per i Paesi nei quali si intende investire. La società di consulenza Bain & Company ha spiegato ad Ucina, la Confindustria del mare, come hanno fatto alcune nostre aziende di abbigliamento a imporsi in Cina: conoscendo prima le esigenze del consumatore, la sua psicologia d’acquisto. E poi è necessario investire sempre più nella formazione e nello sviluppo di nuovi talenti: è questa la nostra forza più grande. I cinesi hanno acquistato, due anni fa, i Cantieri Della Pietà, marchio storico veneziano nel settore degli yacht in vetroresina: hanno sì provato a realizzarne uno interamente made in China, ma non è piaciuto agli acquirenti cinesi.
Dal punto di vista della formazione l’esperienza spezzina ha molto da dirci, sulle nostre potenzialità ma anche sui rischi che corriamo. In pochi anni è sorto un polo di eccellenza, al servizio non solo del territorio ma del Paese: il corso di laurea triennale e il biennio in ingegneria nautica e l’altro biennio in design nautico sono frequentati da 700 studenti, l’80% proveniente da fuori provincia (molti gli stranieri). E poi master, lezioni tenute in lingua inglese, utilizzo dei laboratori di ricerca del Centro studi e sperimentazioni navali della Marina… Non a caso i laureati trovano lavoro in tutto il mondo, e Brasile, Cina e i Paesi emergenti fanno loro proposte allettanti. Insomma, un centro unico in Italia. Ma tra qualche anno ci sarà ancora o no? La domanda, inquietante, ha purtroppo più di un fondamento. I corsi, delle Università di Genova e Milano, sono stati richiesti dalla città, che li ha finanziati in questi anni con risorse in gran parte proprie. Ora l’edificio sta scricchiolando: Comune e Provincia hanno difficoltà economiche, la Fondazione Carispe non dimostra entusiasmo, gli industriali allocano ricchezza nella rendita più che nell’ingegno, lo Stato è scomparso. La Conferenza dei Rettori delle Università italiane ha affermato nei giorni scorsi: “è giunto il momento di decidere se questo Paese ha ancora bisogno delle proprie Università”. Vale anche per il polo spezzino. Le litanie della classe dirigente sui “giovani che fuggono” o sulla “nautica in crisi” servono a poco se non è capace di investire di più in formazione e ricerca.
Giorgio Pagano
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