Il lavoro in Liguria ai tempi della crisi. Istruzioni per l’uso
La Repubblica – Il Lavoro – 10 Aprile 2012 – Tre anni di crisi hanno cancellato un milione di posti di lavoro, e a pagare lo scotto più alto sono stati i giovani. I dati Istat segnano record che riportano allo scorso millennio: la percentuale dei disoccupati è salita al 9,3% della popolazione attiva, con un tasso tra i giovani al 31,9%, i peggiori numeri rispettivamente dal 2004 e dal 1999. E abbiamo la più alta percentuale europea di giovani che né studiano né lavorano: è la scelta drammatica di chi “sente di aver perso il futuro”, come dice Edgar Morin. In Liguria il tasso di disoccupazione è al 6,3% (lo stesso a Genova, il 7,6% a Imperia, il 4,7% a Spezia, il 4,6% a Savona). Siamo tra le regioni con i dati meno negativi, ma ciò non deve farci sottovalutare una situazione che, anche da noi, è drammatica.
Servirebbe una svolta, ma non se ne vede il segno. Non aiutano certe campagne politico-culturali sbagliate. Come quella sui “bamboccioni”, sui giovani incapaci di emanciparsi dalla “cultura del posto fisso”: come se il posto fisso esistesse ancora. In realtà per molti giovani non esiste neppure il lavoro, e chi ce l’ha di fisso ha solo la precarietà. Ancora più insidiosa, perché conduce a un’assurda “guerra tra poveri”, è la campagna sul mercato del lavoro diviso tra “non garantiti” e “ipergarantiti”. Ma chi sono questi ultimi? I lavoratori che hanno il “privilegio” di 700 euro di cassa integrazione? In realtà gli “ipergarantiti” del lavoro dipendente negli ultimi vent’anni sono diventati sempre più poveri (guadagnano in media 1400 euro, contro i 1600 di allora), mentre crescevano il Pil e la ricchezza dei veri “ipergarantiti”, il 10% della popolazione.
Fa parte di questo clima politico-culturale “l’anomalia di partenza” che ha contraddistinto il Governo Monti, come ha detto alla Spezia Sergio Cofferati al convegno dell’Associazione Culturale Mediterraneo e dell’Istituto scolastico Chiodo-Einaudi su “Giovani scuola e lavoro”: “Oggi la priorità non è la riforma del mercato del lavoro, ma la mancanza di lavoro; e di conseguenza la crescita; discutere a lungo su come organizzare una cosa che non c’è è perlomeno singolare”. Si vuole regolare il lavoro, ma non c’è lavoro, perché non c’è crescita. E quindi serve un piano per lo sviluppo, che richiede innanzitutto regole per la crescita sostenibile. Le parole chiave sono innovazione tecnologica, internazionalizzazione, politica industriale, e non possibilità di licenziare o diminuzione della durata e del valore delle protezioni sociali. I “professori” si sono invece dedicati solo a una riforma del mercato del lavoro che contiene, oltre all’ambiguo compromesso sull’articolo 18, anche punti che non innovano sulla questione della precarietà: si lascia in vita un numero insensato di modelli contrattuali di ingresso, mentre non si garantisce l’universalità degli ammortizzatori sociali, e molti precari che perderanno il posto resteranno senza tutele.
Sul terreno delle regole per la crescita abbiamo accumulato ritardi enormi, innanzitutto nella scuola. Per responsabilità del sistema produttivo, che domanda meno conoscenze e competenze di quelle offerte dal sistema formativo. Il quale è a sua volta inefficace perché perde troppi giovani rispetto all’obbiettivo minimo di assicurare a tutti almeno un diploma o una qualifica professionale e perché riesce a far pervenire alla laurea troppi pochi giovani. Inoltre i nostri ragazzi raramente riescono a combinare lo studio con qualche esperienza di lavoro. Ritardi che rimandano alla domanda posta, nel convegno, da Lorenzo Caselli: “Qual è il ruolo della scuola nella comunità nazionale?”. E alla sua risposta: “La scuola dell’inclusione, che è un bene comune, ha oggi un ruolo troppo scarso”.
Certo, mettere al centro occupazione e scuola significa uscire dal neoliberismo in direzione di una politica neokeynesiana che ha bisogno di risorse pubbliche, recuperabili con gli eurobond, la tassa sulle transazioni finanziarie e la lotta non propagandistica all’evasione fiscale. La sinistra europea sta uscendo da un ventennio di letargo e di subalternità culturale: questi devono essere i suoi obbiettivi, il che significa che non ci sono scorciatoie rispetto alla strada del suo rinnovamento culturale, politico e generazionale.
Giorgio Pagano
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