I fatti di Valmozzola e di Monte Barca. Da lì partì la primavera partigiana
La Nazione, 14 marzo 2024
I fatti di Valmozzola e del Monte Barca sono emblematici per comprendere l’inizio della Resistenza. All’origine vi fu un antifascismo spontaneo, esistenziale: ex militari e giovani renitenti alla leva della Repubblica di Salò si aggregarono nelle bande. Furono esperienze molto morali, sulle quali si innestò l’iniziativa politica dei partiti antifascisti.
Le colline della Val di Magra mal si prestavano alla lotta delle bande. IL PCI, il partito più organizzato, e il CLN, che riuniva i partiti antifascisti, decisero di inviare i giovani spezzini sui monti dell’Appennino, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 1944. Il caso volle che le località prescelte fossero Valmozzola, nel Parmense, e il Bagnonese, in alta Lunigiana. Nella prima operava una banda diretta da Mario Devoti “Betti” – ex militare coraggioso e generoso, anche se personalista e stravagante – composta da giovani della zona. Nella seconda esisteva solo un punto di riferimento: Edoardo Bassignani “Ebio”, di Merizzo, comunista ex confinato politico.
La banda Betti, nella quale il santostefanese Primo Battistini “Tullio” e il sarzanese Paolino Ranieri “Andrea” diventarono comandante dei gruppi d’assalto e commissario politico, il 12 marzo assaltò a Valmozzola il treno che stava portando da Spezia a Parma tre renitenti arrestati dai fascisti. L’azione per liberarli riuscì, anche se nello scontro”Betti” fu ucciso. Morirono quattro militi fascisti, molti furono fatti prigionieri e poi liberati, sei processati e condannati a morte.
La rappresaglia scattò feroce – il Prefetto spezzino Franz Turchi inviò in Appennino 300 militi della X Mas – e colpì il 14 marzo i ragazzi del Monte Barca, che lì si erano provvisoriamente nascosti su indicazione di “Ebio”. Nulla c’entravano con l’azione di Valmozzola. Il loro capo, il sarzanese Ernesto Parducci “Giovanni”, subito ferito, riuscì a salvarsi. Tre furono uccisi sul monte, gli altri otto, dopo torture e percosse, il 17 marzo a Valmozzola.
Questi i loro nomi: Ubaldo Cheirasco, Nino Gerini, Luigi Amedeo Giannetti, Domenico Mosti, Gino Parenti, Luciano Righi, Giuseppe Vilmo Tendola, Antonio Trogu e i russi Victor Ivanov, Vassilij Belacoskij e Michail Tartufian, prigionieri nascosti da “Ebio”. Gli otto morirono al grido “Viva l’Italia”.
Il Vescovo di Pontremoli Giovanni Sismondo tentò inutilmente di salvarli. Scrisse ai loro genitori: “Sono morti sorridendo, la loro morte ha sapore di martirio”.
La vicenda ebbe una grande eco. I nazifascisti volevano incutere paura, ma l’esito fu opposto. Un soffio di entusiasmo e di speranza sospinse in montagna tantissimi giovani che fino ad allora non avevano creduto giunto il momento di agire. Era iniziata la grande “primavera partigiana”.
Giorgio Pagano
co-presidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza
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