Clandestini e audaci. L’autunno dei gappisti, il fronte dei sabotaggi e degli atti dimostrativi
La Nazione 12 dicembre 2023
Dopo l’8 settembre 1943 si aprì un varco antifascista, prima esistenziale poi sempre più politico. Tre le componenti: i giovani che avevano vissuto sotto il fascismo e volevano reagire allo sfascio: molti di loro diserteranno poi le chiamate alla leva della Repubblica mussoliniana; i militari sbandati, anche stranieri; i “vecchi” antifascisti.
I primi a salire ai monti, subito dopo l’8 settembre, furono due gruppi: uno a Santo Stefano, guidato da Primo Battistini, allora “badogliano”, e uno a Sarzana, composto da comunisti come Paolino Ranieri e da anarchici come Ugo Boccardi “Ramella”. Entrambe le bande aggregarono alpini sbandati. Le prime azioni le fece il gruppo di Battistini, in particolare a Caprigliola contro due fascisti, che vennero catturati e poi rilasciati. A ottobre si creò a Vezzano il “gruppo Bottari” – Giulio Bottari era un colonnello degli alpini – che si rafforzò con l’arrivo del tenente sardo Piero Borrotzu e si spostò in Val di Vara, dove si unirà alla banda costituita, alla fine del mese di novembre, dagli uomini del Partito d’Azione guidati dai genovesi Giulio Bertonelli e Antonio Zolesio, che raggrupparono militari sbandati e giovani renitenti, e al gruppo calicese di Daniele Bucchioni, che si era costituito il 19 settembre. A ottobre rientrò a Lerici dal carcere il comunista Tommaso Lupi. Il PCI diede a lui e a un gruppo di lericini il compito di realizzare una tipografia clandestina: sorse in una villa al Fodo, sopra Lerici.
L’erano anche le donne a dare una mano: le prime “resistenti”. Il 15 ottobre arrivò a Rossano di Zeri Gordon Lett, ufficiale inglese fuggito da un campo di prigionia con due compagni: nel 1944 darà vita al Battaglione Internazionale. Nell’autunno 1943 si formarono, infine, i primi nuclei del futuro Fronte della Gioventù: giovani comunisti e giovani cattolici raccolti presso la parrocchia di piazza Brin retta da don Antonio Mori. La cornice comune era il CLN, nato a ottobre: ma all’inizio fu diviso e poco attivo, conquistò un ruolo solo con il passare dei mesi.
L’autunno del 1943 si caratterizzò soprattutto per un numero impressionante di sabotaggi e attentati nei centri abitati. L’iniziativa fu dei comunisti, sulla base di un’indicazione nazionale: alle brigate si arriverà più avanti, ora c’è il bisogno urgente di azioni di grande risonanza, di dimostrare che la lotta armata è possibile, di creare un’atmosfera di guerra. Lo strumento erano i Gap, Gruppi di azione patriottica: piccoli nuclei clandestini formati dai più audaci. Da ottobre a dicembre fu un crescendo: sabotaggi alle comunicazioni telefoniche e telegrafiche, attentati alle linee ferroviarie, lanci di bombe.
A Sarzana, la sera del 13 dicembre, il maggiore Rago, commissario prefettizio e segretario del fascio locale, e il segretario comunale che era con lui, Eugenio Gari, rimasero feriti da colpi di pistola, il secondo in modo più grave. Gli attentatori appartenevano al nucleo gappista costituito da Emilio Baccinelli in stretta collaborazione con i comunisti sarzanesi ai monti. La reazione fascista fu furiosa: oltre un centinaio di arresti.
Queste azioni galvanizzarono gli antifascisti e crearono insicurezza nei fascisti e nei tedeschi. Tra i comunisti ci furono anche paure fisiche e remore morali: erano esperienze estranee alle tradizioni operaie.
Di fronte alla tanta violenza operante nel mondo ho scelto il rifiuto totale della violenza. Ma come studioso di storia non posso sottrarmi al compito di collocare la violenza nel contesto del tempo. Sul punto ho intervistato tanti partigiani. Cito una risposta: “Non sono orgoglioso, erano gesti necessari che ora mi pesano”. Come ha scritto Primo Levi: l’oppressore e la vittima “sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui, che l’ha fatta scattare”. La vittima ha poi cercato di rendere la violenza impossibile nel futuro. I partigiani, diventati costituenti, decisero che “L’Italia ripudia la guerra”. “Ripudiare” vuol dire non riconoscere più come proprio qualcosa che pure è nostro, o lo era fino a quel momento.
Giorgio Pagano
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