Via obbligata per Obama: nessuna pace senza Hamas
Il Secolo XIX – 9 giugno 2010 – Ormai è certo: la striscia di Gaza, aldilà della provocazione iraniana, sarà sempre più meta di navi umanitarie provenienti da tutto il mondo, pronte a sfidare il blocco navale israeliano.
La strage sulla Mavi Marmara non può che rappresentare la chiusura di una fase: prima Israele e la comunità internazionale lo capiranno, e meglio sarà per tutti, Israele compreso. Il blitz ha evidenziato il declino di Israele. La sua leadership è incapace di valutare le possibili conseguenze delle proprie decisioni. La debolezza è militare e politica insieme. Dal punto di vista militare l’attacco violento è stato del tutto sproporzionato di fronte a convogli che non rappresentavano alcuna minaccia. Dal punto di vista politico l’illusione di sconfiggere ogni nemico grazie alla superiorità militare ha portato non solo a lutti e violenze, ma anche a devastanti conseguenze di isolamento nel mondo. Si pensi innanzitutto alla rottura con la Turchia, che era stata per anni l’unico alleato islamico di Gerusalemme e che da qualche tempo si era avvicinata a Siria e Iran: una scelta che Israele, con i suoi errori, ha fatto di tutto per facilitare e che, dopo una strage vissuta nel Paese guidato da Recep Tayyp Erdogan come una sorta di 11 settembre, sembra essere diventata irreversibile.
Ma il disastro è tale da mettere in discussione tutta la politica verso Gaza. E’ fallita la strategia tesa a isolare Gaza nella speranza di indebolire Hamas, che è in realtà più forte che mai.
Il “processo di pace”, che si trascina da diciannove anni e che è appena ripreso con i “negoziati indiretti”, cioè mediati dagli americani, tra il palestinese Abu Mazen e l’israeliano Bibi Netaniahu, non farà alcun passo in avanti se non si riesaminerà tutta la politica verso Gaza. Nella striscia la disoccupazione e la povertà sono alle stelle, e mancano tutti i beni di prima necessità. Bisogna affrontare l’emergenza umanitaria, dando nel contempo garanzie ad Israele riguardo alla propria sicurezza. Serve una presenza internazionale indipendente, e una nuova politica che coinvolga Hamas: è ineludibile. Il giorno prima della strage il leader supremo di Hamas Khaled Meshal, in esilio a Damasco, aveva presentato la “svolta diplomatica” del movimento: “apriamo i negoziati e si potrà parlare anche di riconoscere lo Stato di Israele”. Hamas, insomma, non è una succursale dell’Iran.
Ora molto dipenderà da quello che farà Israele. Avrà la lungimiranza di togliere l’assedio alla striscia? Capirà che Gaza sta diventando il suo Vietnam? Senza un segnale di svolta Israele non interromperà il suo declino, che è anche morale. I suoi leader o sono dei praticoni corrotti, come il precedente, Ehud Olmert, costretto alle dimissioni per corruzione edilizia (quante somiglianze con il nostro declino morale…) o sono degli estremisti di destra sotto il ricatto dei coloni, come Netaniahu. Una classe dirigente capace di indicare una rotta al Paese non si vede. E nella società civile, sostiene lo scrittore Avraham B.Yehoshua, malgrado la maggior parte dei cittadini abbia accettato il principio dell’accordo di pace, “regna un senso di paralisi, di alienazione politica, di indifferenza e di fatalismo che potrebbe preparare il terreno a una guerra futura”. Insomma, i segnali confortanti sono pochi.
Una delle condizioni necessarie per una svolta in Israele è nelle mani dei palestinesi, che finora hanno dato forza all’estremismo israeliano con le loro divisioni: la Cisgiordania controllata dai laici di Fatah e Gaza dai fondamentalisti di Hamas. E’ una “guerra nella guerra”, a cui va posta fine. Ci sarà una nuova unità dei palestinesi? Anche in questo caso una classe dirigente viene messa alla prova, per dimostrarsi all’altezza del bisogno di futuro del proprio Paese (e del mondo). Ma anche in questo caso i segnali non sono molto incoraggianti.
L’altra condizione è l’impegno della comunità internazionale. Barack Obama, qualche mese fa, sembrava distratto da altre questioni. Poi ha cambiato linea, perché ha capito che solo la pace tra israeliani e palestinesi può superare alle radici l’instabilità di tutta la regione e aiutare a uscire dalle guerre in Afghanistan e in Iraq e da quella potenziale con l’Iran. A convincerlo ci ha pensato il generale David Petraeus, capo dell’US Central Command, responsabile cioè di tutte le operazioni militari nella regione, con le sue dichiarazioni senza fronzoli, anche pubbliche. Obama è stato cauto (troppo) dopo la strage, il che si spiega con il bisogno di non perdere il suo “potere di pressione” su Netaniahu. Ma per esercitarlo l’America non può più essere, come in questi anni, mediatore imparziale. Deve rimodulare l’alleanza storica con Israele e avanzare una proposta di pace concordata con la comunità internazionale, che riconosca i due Stati e interrompa la colonizzazione in Cisgiordania e il blocco “insostenibile e inaccettabile di Gaza”, come l’ha definito Hillary Clinton. E poi chiamare tutti alla responsabilità e costringere tutti ad accettare. Obama sta andando verso questa scelta. Ma essa non si realizzerà senza una profonda revisione dell’atteggiamento americano verso Hamas. E’ questo, oggi, il vero problema.
Giorgio Pagano
L’autore si occupa di cooperazione in Palestina e in Africa ed è segretario generale della Rete delle città strategiche; alla Spezia presiede l’Associazione Culturale Mediterraneo.
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