Quando gli operai diventarono visibili
IlSecoloXIX – 7 novembre 2009 – Quarant’anni fa, il 28 novembre del 1969, più di 100.000 lavoratori metalmeccanici sfilarono per le vie di Roma: fu la prima manifestazione sindacale di massa del dopoguerra. Gli operai scioperavano per il contratto. Quella manifestazione fu decisiva per la conclusione della vertenza: il contratto fufirmato il 21 dicembre, con una vittoria netta del sindacato, che sfiorò le richieste iniziali. Ero un giovanissimo studente, ma ricordo bene la mobilitazione che rese possibile il corteo: l’autotassazione di centinaia di migliaia di lavoratori per mandare i loro compagni a Roma, le assemblee studentesche a sostegno, la solidarietà dei Comuni. E poi il clima gioioso e pieno di fierezza della manifestazione, e l’emozione legata alla consapevolezza che in campo c’era una grande forza collettiva. Gli estremisti furono isolati. Fu un evento simbolico, anche per come “bucò il video” nella Tv conformista di quei tempi.
Le rivendicazioni salariali dei metalmeccanici erano molto consistenti -75 lire orarie per gli operai e 15.600 lire mensili per gli impiegati- ma non costituivano la parte prevalente del contratto, e anche del suo costo economico: c’erano la riduzione a quaranta ore della settimana lavorativa, la limitazione del lavoro straordinario, l’aumento delle ferie, la progressiva parità normativa tra operai e impiegati, il diritto al controllo delle condizioni di lavoro e alla tutela della salute, il diritto di assemblea nelle fabbriche e nell’orario di lavoro alla presenza dei dirigenti sindacali. Quel contratto segnava una stagione che cambiò radicalmente la vita degli operai e anche la natura del sindacato. Prima un metalmeccanico lavorava per 45 ore settimanali, lo straordinario veniva gestito unilateralmente dalle direzioni aziendali, non esisteva alcun diritto. Ma ciò che era stato regola per tanti anni non poteva più essere accettato da una nuova classe operaia, giovane, in parte acculturata, consapevole dei propri diritti, critica verso il vecchio sindacato.
Le lotte dei metalmeccanici, culminate nella manifestazione di quarant’anni fa, ci spiegano come in Italia il ’68 sia stato in realtà il ’68-69, con un elemento comune al movimento degli studenti e a quello degli operai. Un protagonista di allora, il segretario della Fiom Bruno Trentin, lo definì il “rifiuto della burocratizzazione autoritaria”: una forte carica antiautoritaria che contestava la rigida divisione dei ruoli tra dirigenti e diretti, e affermava, anche attraverso l’azione collettiva, una volontà di autorealizzazione degli individui. Sta qui il senso della svolta del ’69 operaio: la fuoriuscita dalla tradizionale lotta redistributiva, la battaglia per nuovi spazi di democrazia e di autodecisione nei luoghi di lavoro, per contrastare non solo l’autoritarismo in fabbrica ma anche il verticismo delle burocrazie sindacali. Il sindacato fu spinto a cambiare nella direzione della democrazia interna e dell’unità, e recuperò un’antica tradizione libertaria del movimento operaio italiano. Fu un punto alto, un momento europeo e internazionale della nostra storia, in cui masse molto vaste di lavoratori e di giovani facevano politica, anche fuori da sindacati. In cui diventammo tutti più liberi.
Oggi la situazione è radicalmente diversa. Non esistono più le grandi masse dei lavoratori dell’industria di un tempo, anche se gli operai sono pur sempre 7 milioni. Le lotte sono redistributive, ma soprattutto in difesa dei posti di lavoro minacciati dalla crisi. Nel sindacato la democrazia è scarsa, el’unità un ricordo del passato: ma un problema di coesione esiste anche tra i lavoratori, non solo tra le loro organizzazioni. E poi i lavoratori sono meno animati da ideali e attese di progresso: è cambiata non solo la composizione ma anche l’identità, la coscienza di sé del mondo del lavoro.
Eppure l’autunno caldo lascia dietro di sé alcune lezioni attuali, non consegnate interamente al passato. Prima del ’69 i diritti dei lavoratori non erano garantiti: non a caso lo Statuto dei diritti dei lavoratori arrivò nel ’70. La prima lezione, allora, è l’attualità del tema dei diritti e dell’integrazione tra quelli sociali e quelli civili: e quindi della riflessione su quali sono, nel nuovo mondo del lavoro, i diritti fondamentali da salvaguardare o da conquistare. Si pensi ai diritti dei lavoratori precari e a quelli, anche religiosi, dei lavoratori immigrati. Ma anche al diritto alla sicurezza, alla formazione e all’informazione e al controllo sulla prestazione di lavoro, che sono fondamentali ma dimenticati. E poi c’è la contrattazione. Prima del ’69 si contrattava poco. Questa è la seconda lezione aperta: la contrattazione collettiva come strumento indispensabile per il mondo del lavoro, da rinnovare perché raggiunga le tante varietà del lavoro odierno e riduca le disuguaglianze sociali così cresciute negli ultimi 10 anni.
C’è poi una terza lezione, la più importante. A metà degli anni ’50 sia la Cgil che la Cisl, divise più di oggi, erano poco radicate tra gli operai comuni e in genere tra i giovani. Non avevano una base di massa consistente e la loro iniziativa ne risentiva. Ci vollero anni per una effettiva ripresa, la cui prima chiara manifestazione può essere fissata nell’aprile 1960, con lo sciopero di sedici giorni contro l’accelerazione dei ritmi delle linee di montaggio dell’Alfa Romeo: protagonisti furono operai giovanissimi, per lo più immigrati e non iscritti al sindacato. La ripresa si estese rapidamente, raggiunse una notevole ampiezza nelle lotte contrattuali del ’62-63 per poi sboccare nella stagione del ’68-69. Ma partì dai lavoratori, che costrinsero i sindacati a cambiare e ad unirsi. Anche oggi il cambiamento non verrà dall’alto, ma dai lavoratori e dalle nuove energie che riusciranno ad emergere dalla società civile. E’ la lezione che ci ha lasciato un altro dei protagonisti di quegli anni, Vittorio Foa, che ricordava sempre che i protagonisti del conflitto sociale in una società moderna non sono solo i sindacati, gli imprenditori e il governo, ma anche gli operai e i lavoratori. Prima o poi la classe oggi invisibile ritroverà la sua voce.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche)
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