Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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PD, largo ai giovani non succubi dei vecchi leader

a cura di in data 15 Gennaio 2009 – 10:21

Il  Secolo  XIX – 15 gennaio 2009 – Il Rapporto Luiss 2008 “Generare classe dirigente” ritrae una classe dirigente invecchiata, “a sesso unico”, con difficoltà di ricambio e spiccata propensione autoreferenziale. L’Italia si conferma il Paese d‘Europa più allergico al rinnovamento: il 45,2% dei numeri uno di politica, economia, professioni è ultrasettantenne, contro il 31% della Gran Bretagna e il 28% della Spagna. La gerontocrazia trionfa soprattutto nell’università, ma anche nella politica e nella cultura. Le donne sono un’ estrema minoranza. I giovani più coraggiosi se ne vanno e cercano fuori la via d’uscita dall’ immobilità sociale. Gli Usa raccolgono un quarto dei 2 milioni e 700.000 studenti che vanno all’estero, l’11 e il 10% vanno in Gran Bretagna e in Germania, il 9 in Francia, mentre l’Italia è l’unico Paese sviluppato con un saldo negativo: sono 4000 in più quelli che se ne vanno.
Mentre ascoltavo il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica sulla necessità di fare della crisi un’occasione per liberarci dei problemi che ci portiamo dietro da troppo tempo e per   costruire un’Italia più giusta, pensavo a quello che è il vero problema italiano: la mancanza di leadership, la crisi e l’inadeguatezza della classe dirigente. Che vuol dire crisi del suo sistema etico e dei valori, della formazione scolastica, della struttura dei partiti, dell’ordine istituzionale, delle forme di selezione.
Le degenerazioni delle elite hanno una corrispondenza con quanto avviene in parte della società: una società invecchiata, prigioniera del segregazionismo di genere, spesso poco istruita e informata, poco attenta al merito e all’interesse collettivo. Una società spesso  familista, corporativa e localista. Immobile e chiusa.
E tuttavia il Presidente ha ragione quando ci invita a far leva sui nostri punti di forza. C’è anche un’Italia che va. C’è una classe dirigente che si forgia sui criteri del merito e dell’interesse pubblico: una  parte degli imprenditori e dei professionisti, e anche degli amministratori locali ( ma l’esperienza dei sindaci, che nei primi anni ’90 aveva rinnovato la classe dirigente politica, non ha trovato sbocchi in ambito nazionale, e conosce oggi una crisi profonda). “Le vere classi dirigenti si fanno in periferia con il policentrismo”, afferma il fondatore del Censis Giuseppe De Rita. Aggiunge Nando Delai, sociologo e coordinatore del Rapporto Luiss: “Le medie aziende che hanno sfidato la globalizzazione sono, assieme a qualche scheggia di amministrazione locale e a un pezzo del sociale, uno dei crogioli più interessanti per la formazione di un nuovo estabilishment”. L’età media degli amministratori delegati delle aziende quotate in Borsa a Milano è leggermente inferiore a quella dei CEO di Wall Street. E nelle imprese sta cominciando a saltare il tabù di genere.
Anche in questo caso c’è una corrispondenza con la società. Fortunatamente esistono due società, così come esistono due tipi di classe dirigente. C’è una cittadinanza competente, istruita, informata, propensa  al merito e all’interesse pubblico: lì c’è il vero motore, il centro da cui si può irradiare il rinnovamento della classe dirigente.
Il punto più debole della classe dirigente, rileva il Rapporto, è la classe politica (compresa una parte di quella decentrata) che, secondo gli italiani, ha i demeriti e le responsabilità maggiori. La società competente le chiede più governabilità e partecipazione, più capacità e trasparenza decisionale, più correttezza.
Nella classe politica la logica delle relazioni e quella della cooptazione contano più  del valore. E il meglio del Paese non si contamina con una politica imprigionata in queste logiche perverse. Nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica il processo di selezione della classe politica è peggiorato: al posto della selezione dei partiti di massa, dove contavano i vertici ma c’era anche una base, c’è quella dei partiti personalizzati, in cui decidono, senza controllo democratico, i capi partito sopravvissuti alla crisi dei partiti. Non ci sono regole di reclutamento, solo discrezionalità da parte di chi è deputato a cooptare. Siamo sprofondati in un regime oligarchico, che non lascia spazio al rinnovamento. La politica, dice il Rapporto, manda in Parlamento figure di scarsa qualità e alta lealtà, che tendono a mantenere lo status della leadership che li ha cooptati. Il merito resta fuori perché nel contesto politico italiano appare minaccioso.
A destra c’è il partito di Berlusconi, con il suo modello “cortigiano”. E c’è la Lega, che ha saputo portare in Parlamento molti giovani sindaci, radicati nel territorio dove governa.
A sinistra c’è il Pd, guidato da coloro che erano alla guida della Fgci e del Movimento giovanile Dc negli anni’70 e ’80. Sulla base dell’esperienza mi sono convinto della necessità che questo gruppo dirigente passi la mano a una generazione più giovane. Le cronache raccontano di un sistema logoro, anche perché i protagonisti e i comprimari sono sempre gli stessi. Il Pd è così incompiuto e “non sa scegliere con chi stare”, come scrive Riccardo Barenghi nel suo “Eutanasia della sinistra”, anche per questo. Ma il problema del rinnovamento della classe dirigente del Pd è veramente serio, perché i giovani non sono portatori di proposte diverse e sembrano ossessionati dall’obbedienza e dalla fedeltà ai capi e dalla prudenza.
Che fare, allora, per rinnovare la nostra classe dirigente? Per il Rapporto la prima cosa è agevolare il ricambio, anche con l’introduzione di quote per giovani e donne. Poi occorre migliorare la scuola e aprirla al merito, e creare poli universitari di eccellenza deputati a formare una nuova classe dirigente nelle grandi organizzazioni pubbliche  e private, offrendo borse di studio per i meritevoli delle classi disagiate. Un’altra direzione di marcia è quella delle regole e delle riforme: legge elettorale per far decidere i cittadini, riduzione del ceto politico e dei suoi costi, riordino della pubblica  amministrazione per far crescere “sul campo”, con la meritocrazia dei concorsi pubblici, una nuova generazione di civil servants.
Non serve la deriva giustizialista, cioè sostituire semplicemente uomini con altri uomini (o donne). Occorre generare classe dirigente a mezzo di classe dirigente. La nuova classe dirigente impara a   crescere solo lavorando vicino alla vecchia. I leader attuali dovrebbero recuperare generosità e orgoglio, farsi affiancare da giovani leader e favorire l’avvicendamento. E i giovani dovrebbero mostrare quel che valgono, anziché mettersi sulla scia di qualche manager o politico anziano.
Indicazioni utili, a maggior ragione, per il Pd. Leader generosi che fanno un passo indietro  e giovani che riscoprono il conflitto delle idee, il grande assente nel parolaio del giovanilismo, e diventano eroi di se stessi. Forse un nuovo riformismo, una nuova passione per l’uguaglianza e un partito vero possono nascere solo così.

Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).

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