PD, il buongiorno si vedrà dalla politica per il lavoro
Il Secolo XIX – 27 ottobre 2009 – “Il primo impegno sarà per i lavoratori”. Così ha dichiarato Pierluigi Bersani appena eletto nuovo segretario del Pd.
Andrea Ranieri, sul Secolo XIX del 22 ottobre, ha sottolineato la gravità della divisione del sindacato in una fase contrassegnata dalla pesantezza della crisi e delle disuguaglianze sociali, dal fallimento del neoliberismo e dall’assenza di strategie del Governo in materia di protezione sociale e di sostegno allo sviluppo.
Ma se il sindacato ha le sue responsabilità, credo sia giusto riflettere anche su quelle della sinistra politica: riassegnare uno spazio rilevante al lavoro dipendente è la sfida principale che le sta davanti. Se il riformismo del lavoro diventasse asse programmatico identitario del Pd, come propone Bersani, il progetto di un sindacato nuovo e unito troverebbe l’indispensabile sponda politica.
Come ha scritto Giuliano Amato presentando il quaderno di Italianieuropei dedicato al lavoro, è vero che c’è una distinzione tra sindacati e partiti, dato che questi ultimi hanno la fisiologica aspirazione a raggiungere la maggioranza degli elettori, ma “neppure nel caso dei partiti il riferimento al mondo del lavoro ha ragione di venir meno”, se non altro perché “la maggioranza della società continua ad essere costituita da coloro che vivono sul proprio lavoro”. La costruzione di una forza politica maggioritaria, dunque, “si può ancora incentrare sul lavoro”.
A patto, naturalmente, di fare i conti con quel vero e proprio “colpo al cuore” ai sindacati e ai partiti progressisti rappresentato dalle trasformazioni di questi anni. Cioè con quel percorso regressivo delle condizioni di chi lavora cominciato alla fine degli anni Settanta, ben delineato dai documenti conclusivi della Commissione interistituzionale di indagine sul lavoro presieduta da Pierre Carniti: riduzione del peso del reddito del lavoro rispetto agli altri redditi, crescente precarietà soprattutto per giovani e donne, arretramento del welfare e degli ammortizzatori sociali, peggioramento delle condizioni di salute e sicurezza e della durata dell’orario di lavoro, dei suoi tempi e dei suoi ritmi. E’ vero che c’è un’evoluzione di lungo periodo del lavoro verso contenuti più ricchi e soddisfacenti, e che una parte dei lavoratori precari apprezza i margini di autonomia e di autoregolazione della propria attività consentita dai rapporti flessibili: ma si tratta, appunto, solo di una parte. Mentre la preoccupazione per la mancanza di stabilità riguarda tutti, così come quella per salari troppo bassi.
Ecco perché, in questo contesto, è prioritario allargare la stabilità del lavoro, anche aiutando le imprese a diventare più stabili e meno fragili. Mentre per gli occupati con il posto fisso è giusto puntare sulla contrattazione decentrata, per premiare produttività e professionalità: ma ciò ha un senso solo se, a monte, c’è una contrattazione di primo livello che garantisce salari dignitosi. Cosa che oggi non è. Anche il rapporto della Commissione europea “Crescita, lavoro e progresso sociale” ci spiega che in Italia i lavoratori a rischio povertà sono più numerosi della media Ue, perché i salari e la protezione sociale sono più bassi. Non c’è dubbio, quindi, che se si vuole accrescere la coesione nazionale e generazionale del mondo del lavoro e ricomporre le lacerazioni che l’attraversano, oggi il contratto nazionale assume più forza rispetto al passato. Questo primo livello contrattuale forte e unificante è la condizione fondamentale per il dispiegarsi della contrattazione territoriale.
C’è poi il tema del lavoro autonomo, i cui confini con il lavoro dipendente in molti casi non sono più così netti come in passato. E’ un tema che non interessa il sindacato, e lo si può anche capire, ma nemmeno la sinistra politica, il che è del tutto incomprensibile. Se ne occupava di più il Pci (sempre attento ai famosi “ceti medi”), che non i vari partiti che gli sono succeduti.
Rivalutazione di tutto il lavoro e costruzione di una nuova unità del mondo del lavoro sono i difficili compiti che stanno davanti ai sindacati e alla sinistra politica. Una matassa difficile da sbrogliare: ma, se non ci riusciranno, queste forze sopravviveranno, forse, ma in modo inerziale. Perché avranno rinunciato alla loro funzione storica.
Nel Pd Bersani ha vinto proponendo poche parole chiave: costruire davvero un partito e ripartire dal lavoro, dalla questione sociale e dall’uguaglianza. E’ l’unico “senso” possibile alla storia di una forza politica progressista. Da domenica la sinistra italiana può ricominciare la sua storia, anziché impigrirsi nei rimpianti del passato o smarrire la sua identità in un nuovismo senza radici e subalterno alla destra.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).
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