Obama docet: il PD si salva se costruisce il futuro
Il Secolo XIX – 2 luglio 2008 – Pd è ripiegato sulle polemiche interne: da qui disillusione e depressione tra iscritti (o meglio aspiranti tali) e elettori.
Si può uscire da questa fase se si costruisce il partito: da un punto di vista organizzativo, ma soprattutto da quello politico-culturale, perché la definizione dell’identità è la priorità del Pd. “Dare vita a un partito nuovo -ha scritto Veltroni- è innanzitutto un’operazione culturale” e “costruire una cultura unificante è il nostro primo obbiettivo”. Serve dunque un lavoro di costruzione, nel vivo di una battaglia contro la mancanza di senso dello Stato della destra e le sue ricette economiche, punitive verso i ceti deboli e i servizi.
Veltroni alla costituente ha usato parole nuove: capire la questione sociale, battersi per una crescita che riduca le disuguaglianze, costruire un partito non “leggero”, ricercare alleanze programmatiche con l’Udc e con la sinistra che non rinuncia all’obbiettivo del governo… Ora serve che si mettano in movimento i pensieri, che si mescolino culture e ispirazioni diverse. Non servono correnti interessate a tutelare l’attuale ceto dirigente.
Va aperta una discussione vera, per fondere le culture politiche che hanno dato vita al Pd, che oggi sembrano ritirarsi nei vecchi confini, e per dare un cemento ideale e politico unitario al partito. Solo così si può scongiurare il rischio di ridurre il Pd a un assemblaggio di potentati , in un gioco autodistruttivo che riproduce gli scontri che negli ultimi 15 anni hanno segnato l’agonia di Pds-Ds e di Ppi-Margherita.
Il tema di fondo è quale riformismo. Io penso a un riformismo che non si adatta alle logiche del mercato e che ricerca un nuovo rapporto tra politica e economia, per evitare la scucitura della società e la distruzione della natura. Il tema di fondo è la funzione del Pd nella società, la sua ragione d’essere. Io penso non a un partito che vuole dare rappresentazione a tutta la società , ma a un partito che vuole dare una rappresentanza agli interessi e ai soggetti sociali disponibili a far crescere e a rendere più giusto il Paese: il lavoro dipendente, la cui dignità deve essere più che mai difesa, e quei lavoratori autonomi, imprenditori, professionisti che non puntano sull’evasione fiscale o sulle regole delle corporazioni ma sulla capacità professionale e sull’innovazione. Penso al partito dei giovani, delle donne, dei consumatori, dell’ecologismo. Ecco, il Pd deve decidere qual è il popolo a cui vuole rivolgersi. E qual è la sua visione del futuro, non solo il suo programma. Obama ha vinto perché aveva una visione, mentre Hillary aveva solo un programma (così come, almeno finora, Mc Cain).
Il partito deve essere il luogo di questa discussione e della sintesi: se manca questa comunità, la gente va a discutere da altre parti.
Un’altra diatriba di un partito che oggi parla più di se stesso che del Paese è quella del “rinnovamento generazionale”. E’ vero che il gruppo dirigente degli ultimi 15 anni è sempre lo stesso, ma purtroppo è così perché altri non sono mai emersi. E, oggi, che proposta strategica alternativa viene da trentenni-quarantenni? Nessuna. Se la questione è quella di un rapporto nuovo e di massa del Pd con l’Italia, è evidente che il rinnovamento non è un problema solo generazionale ma soprattutto culturale, e che serve una leadership collettiva, fatta di persone giovani e meno giovani che non provengano solo da Ds e Margherita, che siano tutte libere di pensare e tutte non affette dal “virus del potere”. Perché le persone che meglio sanno esercitare il potere sono quelle che non lo amano: chi non ha un atteggiamento di distacco dal potere non è capace di correre rischi e quindi non realizza il cambiamento. Serve, insomma, una nuova (non solo anagraficamente) classe dirigente, nella quale le vecchie appartenenze vengano superate.
Concludendo: sia alle primarie sia dopo il voto è prevalsa nel Pd un’unità anemica attorno a Veltroni, ora serve un’ unità nuova che passi attraverso il “rompete le righe” dell’assetto attuale. Non nella direzione dei recinti dei potentati ma in quella di una riflessione non conformista e di un impegno nel Paese che coinvolga le tante risorse –anche potenziali- del Pd. Insomma, serve un partito democratico. Solo così il Pd può ripartire.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).
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