Marzo 1943. Gli scioperi che scossero il fascismo
Il Secolo XIX nazionale, 19 marzo 2023
Il 10 agosto 1946, alla Conferenza di pace a Parigi, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, in un discorso passato alla storia, ebbe a dire: “Ora non v’ha dubbio che il rovesciamento del regime fascista non fu possibile che in seguito agli avvenimenti militari, ma il rivolgimento non sarebbe stato così profondo, se non fosse stato preceduto dalla lunga cospirazione dei patrioti che in Patria e fuori agirono a prezzo di immensi sacrifici, senza l’intervento degli scioperi politici nelle industrie del Nord, senza l’abile azione clandestina degli uomini dell’opposizione parlamentare antifascista … che spinsero al colpo di stato”.
De Gasperi si riferiva agli scioperi del marzo 1943, che costituirono una rottura del fronte interno e un incentivo alla congiura monarchico-badogliana contro Mussolini che condusse al colpo di stato del 25 luglio.
Certamente furono decisivi gli avvenimenti militari: tra ottobre e novembre 1942 le truppe tedesche e italiane subirono le sconfitte di Stalingrado e di El Alamein. La prima segnò la fine delle speranze di eliminare l’URSS dalla guerra e diede origine alla nostra disastrosa ritirata; la seconda aprì la strada alla completa perdita dell’Africa settentrionale e avvicinò la guerra al territorio italiano.
Ma gli scioperi ebbero un peso davvero rilevante. Una conferma indiretta proviene dal diario del generale Paolo Puntoni, aiutante di campo del re. In aprile si sviluppò una grave crisi nel governo, nella direzione del partito e nei sindacati fascisti, nell’apparato dello Stato. Venne destituito, tra gli altri, Carmine Senise, capo della polizia. Puntoni attribuì la destituzione anche alla “debolezza manifestata da Senise nella repressione dei moti operai in Alta Italia”. Il termine “moti” invece di “scioperi” coglie adeguatamente il punto di svolta rappresentato dall’esplosione popolare di marzo: furono le agitazioni proletarie ad anticipare l’opposizione politica alla dittatura.
Ma vediamo che cosa accadde, seguendo la cronaca del dirigente comunista Umberto Massola, che sui “moti” scrisse un opuscolo nel 1945. Dal maggio 1942 al febbraio 1943 si sviluppò in tutto il Nord un vasto movimento di scioperi e di sabotaggi: la classe operaia si mostrava sempre più decisa. Il segnale per lo sciopero di marzo lo diedero gli operai della FIAT Mirafiori, il 5 marzo. Seguirono le altre fabbriche torinesi. L’8 marzo migliaia di donne manifestarono in piazza Castello contro la guerra e per la pace, per dimostrare il seguito popolare degli operai. Le operaie furono agguerrite anche nelle fabbriche, al grido “Pane! Pace!”.
Nonostante la repressione e i numerosi arresti, il movimento si sviluppò in tutto il Piemonte, dal 16 marzo, e a Milano, dal 19 marzo. Scrisse Massola: “L’agitazione minacciava di svilupparsi nelle fabbriche della Liguria, Venezia Giulia e dell’Emilia. Nell’impossibilità di arrestare il movimento con i soliti mezzi repressivi a causa della possente e organizzata azione delle masse operaie, il governo fascista fu costretto a cedere. Il 3 aprile, dopo un mese di scioperi, dopo l’interruzione di un mese nella produzione bellica, la classe operaia obbligava Mussolini a operare una prima grande ‘ritirata strategica’: i salari e gli stipendi furono aumentati”. Gli scioperi terminarono solo nella prima quindicina di aprile.
In un libro del 1962 il dirigente socialista della CGIL Oreste Lizzadri raccontò il grande agitarsi dei gerarchi fascisti, accorsi senza successo nelle fabbriche di Torino e di Milano: “I capi fascisti che si recavano nelle fabbriche venivano accolti con le braccia incrociate e, spesso, con sonore fischiate e grida di ‘abbasso la guerra’, ‘abbasso il fascismo’”. I fascisti ormai percepivano il proletariato come il nemico principale: una sorta di ritorno alle origini, quando la violenza squadrista nella politica e nella società fu un tutt’uno con la violenza sul lavoro, la disgregazione di ogni struttura operaia, la proibizione dello sciopero.
Probabilmente sia Massola che Lizzadri esagerarono nell’accentuare la dimensione politica antifascista degli scioperi, che nacquero per una fondamentale esigenza di sopravvivenza. La razione-base alimentare, già insufficiente, subiva continue diminuzioni fino a raggiungere il più basso livello in Europa. Alla FIAT il motivo scatenante fu il rifiuto di pagare la promessa indennità ai lavoratori di aziende in centri colpiti dai bombardamenti.
Entrambi avevano però chiaro che l’essenza delle rivendicazioni era di natura economica. Leggiamo Massola:
“Nel mese di luglio 1942, i gerarchi fascisti stabilirono di far pesare gli operai di alcuni stabilimenti di Torino. Speravano di poter ottenere con i risultati di questa inchiesta la possibilità di ridurre maggiormente il tenore di vita delle masse e nello stesso tempo di aumentare la quantità di derrate alimentari da inviare in Germania. Alla Grandi Motori – stabilimento di 4 mila operai – l’iniziativa dei gerarchi fascisti rivelò che la maggioranza della maestranza nel corso della guerra aveva subito gravi perdite di peso. Risultava infatti che la perdita di peso di ogni operaio si aggirava dai 5 ai 14 chili: ‘operai che misuravano metri 1 e 70 e oltre di altezza pesano soltanto 53-55 chili. La percentuale degli operai ammalati è in continuo aumento’, riferiva l’operaia C. nel luglio 1942”.
È problematico individuare il ruolo preciso, nell’organizzazione degli scioperi, del Partito comunista. La rottura tra operai e fascismo fu determinata dall’aggravarsi delle condizioni materiali, e la forza organizzata del PCI era allora del tutto embrionale (6.000 iscritti nel settembre 1943). Ma la sottolineatura della “spontaneità” degli scioperi non deve far dimenticare, come notò Giovanni De Luna, che “in una grande fabbrica, sulla base della sua struttura produttiva, anche un gruppo numericamente minoritario può efficacemente dirigere e ‘gestire’ un movimento di lotta” e che, pur essendo allora il gruppo dirigente del PCI “’spiazzato’ rispetto alle lotte di fabbrica”, “’l’autonomia’ nei confronti del PCI … passava in quel caso attraverso il PCI stesso, con il quadro di fabbrica comunista difficilmente identificabile con il partito”. Sulla base della “spontaneità” operaia si inserì dunque il PCI, prima con i suoi quadri, poi sempre più come partito, aggiungendo ai motivi economici quelli politici del no alla guerra e al fascismo.
Il regime stesso si sforzò di sostenere che gli scioperi erano motivati da ragioni economiche. Non soltanto per non ammettere che esistessero crepe politiche ma anche per attribuire la responsabilità ai bombardamenti e alle iniziative militari del nemico. Tuttavia fu lo stesso duce a usare il termine “un vero e proprio tradimento” e a criticare le “chimere bolsceviche”, contraddicendo la narrazione tesa a minimizzare. Oltre agli aumenti dei prezzi e al mercato nero, le motivazioni avevano un “sentore politico” (Marcello Flores e Mimmo Franzinelli), come ben sapevano i fascisti. Che i loro tesserati, e pure i militi, partecipassero agli scioperi doveva pure significare qualcosa. Senise, poco prima di venire silurato, non poté ignorare l’esistenza di “finalità politiche”, mentre il sindacalista fascista Edoardo Malusardi affermò: “È inutile che ce lo nascondiamo, quello che sta succedendo nelle fabbriche non è semplicemente un’agitazione per rivendicazioni economiche, ma risponde a un chiaro obiettivo politico. È evidente che le masse sono guidate dalle forze oscure dei nemici della patria”.
Resta una domanda: perché gli operai di Genova e della Liguria non scioperarono nel marzo 1943, ma solo dopo il 25 luglio e, soprattutto, dopo l’8 settembre? Non basta, per rispondere, fare riferimento alla – relativa – fragilità del Partito comunista, evidenziata anche da una nota non firmata, ma di Giancarlo Pajetta, sull’organizzazione a Genova e in Liguria, scritta a fine anno. Può essere utile anche ripartire da una considerazione di Tim Mason, secondo il quale: “nella storia del movimento operaio non esiste un nesso meccanico tra il grado di sofferenza di volta in volta misurabile, da un lato, e la disponibilità alla lotta dei gruppi di lavoro coinvolti, dall’altro”. Fame e sfruttamento possono portare alla demoralizzazione come alla rabbia. L’ipotesi di una naturale propensione operaia alla lotta non è sostenibile, tanto più se si considera la cesura del ventennio. Il fatto che buona parte dell’industria ligure fosse direttamente coinvolta nella produzione bellica determinava inoltre un controllo militare particolarmente rigoroso. I lavoratori volevano sottrarsi all’invio per lavoro in Germania: la deportazione era stata particolarmente intensa già nel 1941-42, e lo sarà ancora nel 1943. Non è mai stata scritta una storia della paura durante una dittatura, e non possiamo sapere. Sappiamo tuttavia che ci furono eccezioni: la più importante fu lo sciopero alla Manifattura Tabacchi di Genova dal 26 al 30 marzo, per l’aumento dei salari. Ancora una volta furono le operaie le più combattive: sette di loro furono arrestate. Inoltre il 23 marzo si scioperò alla Brown Boveri di Vado Ligure. Certamente nei mesi successivi la classe operaia ligure divenne un attore centrale della fase finale della guerra e del processo di transizione alla democrazia.
Giorgio Pagano
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