Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Le generazioni distrutte da vent’anni di liberismo

a cura di in data 21 Aprile 2011 – 09:21

Il  Secolo  XIX – 21  aprile  2011 – Una manifestazione nazionale dei lavoratori precari, articolata in tante città, come quella tenutasi il 9 aprile, sarebbe stata impensabile fino a un anno fa. La verità è che il nostro Paese riserva ai giovani condizioni di sempre maggiore sfavore. Non si ha pace su una simile polveriera: prima o poi, oltre alla fuga all’estero già in atto, ci sarà anche la rivolta. Il lavoro è poco e quel poco è, tre volte su quattro, precario. Nel biennio 2009-2010, ci spiega un rapporto della Uil, oltre il 76% delle assunzioni è stato fatto con contratti a termine o collaborazioni a progetto; i contratti a tempo indeterminato sono stati solo il 20,8%, il restante 3,1% spetta all’apprendistato. Secondo studi più recenti dell’economista Tito Boeri, solo il 15% delle assunzioni avviene a tempo indeterminato. Ancora: il tasso di disoccupazione giovanile è passato, in dieci anni, dal 23 al 30% (oltre sei punti sopra la media europea), e due milioni e duecentomila giovani né lavorano né studiano. Quando lavorano, hanno salari d’ingresso bassissimi, “fermi da oltre un decennio su livelli al di sotto di quelli degli anni ‘80”, ha rivelato il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. E non vengono coinvolti in formazione sul posto di lavoro, l’unica cosa che potrebbe proteggerli dal rischio di perdere l’impiego. Quando perdono il lavoro -nel 2009-2010 lo hanno perso quasi un milione di lavoratori sotto i 35 anni, in grande maggioranza precari- non accedono alla cassa integrazione e sono privi di ammortizzatori sociali.
”La vita non aspetta”, era lo slogan del 9 aprile. I giovani erano in piazza per riprendersi la vita, per sentirsi nuovamente parte di un Paese che non li ascolta e li espelle dalla scena. Certo, non tutti i ragazzi sono spaventati dalla flessibilità: una parte, quella che fa lavori creativi e cognitivi, sa che deve cambiare lavoro e prendere strade diverse nel corso della vita. Un bravo professionista può vivere persino come un problema il fatto di legarsi per sempre a un lavoro. Ma non è così per tutte le fasce sociali e gli ambiti professionali. Chi non è qualificato o specializzato è uno sfruttato privo di ogni tutela. E comunque anche i “creativi” chiedono giustamente tutela. E’ questo il dramma provocato dalle controriforme operate a partire dagli anni ’90, complice un centrosinistra subalterno al neoliberismo, per cui la flessibilità doveva portare più ricchezza per tutti e più produttività: in realtà è successo il contrario.
Che la subalternità permanga in molti maitre à penser del defunto riformismo alla Tony Blair lo dimostra l’intervento del deputato del Pd Pietro Ichino sul Corriere dell’8 aprile, firmato in compagnia di Luca Cordero di Montezemolo e di Nicola Rossi: nessuna autocritica rispetto a un ventennio che ha devastato i diritti del lavoro e in cui sono stati anche loro classe dirigente; e la proposta di combattere il precariato con la “copertura della maggiore spesa attraverso un atto di solidarietà intergenerazionale: un anno in più al lavoro per i padri in cambio di una concreta prospettiva di stabilità e di una pensione decente per i figli”. Dopo aver fatto di tutto per dividere i lavoratori, ora si vuole alimentare anche la divisione tra generazioni, senza peraltro spiegare con chiarezza in che modo raggiungere la stabilità dei precari.
La vera risposta alle preoccupazioni dei giovani è un’altra. La loro paura è la discontinuità del reddito, è l’esclusione sociale che comporta perdere un lavoro. La loro richiesta è la continuità del reddito, è un nuovo modello di welfare che garantisca tutti  senza mettere in discussione i diritti di nessuno. Serve, sostiene Luciano Gallino, una nuova legge del lavoro, che parta dalla Costituzione e metta al centro il lavoro a tempo indeterminato per tutti, prevedendo solo alcune deroghe, al posto degli oltre 40 contratti esistenti. E che proceda verso qualche forma di reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza, come in tutti i Paesi europei ad eccezione di Italia, Grecia e Ungheria: una forma di sostegno che riguarda chi il lavoro non lo ha mai avuto, ma anche i disoccupati e i precari non tutelati dagli ammortizzatori sociali, e i futuri pensionati con pensioni al di sotto del minimo vitale. Un reddito minimo che non sia in contraddizione con l’obbiettivo della piena occupazione, perché può e deve permettere la ricerca di un lavoro soddisfacente e la fuoruscita dal ricatto del precariato. Discutiamo il tipo di reddito di cittadinanza: le proposte in campo sono più d’una. Ma assumiamolo come strumento di sicurezza essenziale, non a caso ormai presente in tutta Europa.
E pensiamolo come uno strumento finanziato con la riduzione selettiva della spesa pubblica e con la fiscalità generale. L’Agenzia per le entrate ha valutato in 25 miliardi di euro per il solo 2010 le entrate tributarie ascrivibili al contrasto all’evasione a all’elusione fiscale. C’è poi l’economia dell’alta finanza e della speculazione, protetta da un regime fiscale troppo docile. L’Italia è un Paese sempre più diseguale: le diseguaglianze tra ricchi e poveri sono cresciute del 33% rispetto alla metà degli anni ’80. Ancora più accentuata è la diseguaglianza nei patrimoni: il 42% della ricchezza totale è detenuto dal 10% dei cittadini, che hanno “solo” il 28% del reddito totale. A questi lavoratori sempre più impoveriti, che negli ultimi due decenni hanno perso dagli 8 ai 10 punti di Pil, spostati dalle retribuzioni alle rendite, e che in 8 anni hanno visto ridotta di un terzo la loro capacità di risparmio, i nostri “riformisti” vorrebbero imporre un anno di lavoro in più. Basta, non può toccare sempre a loro. Serve una sinistra che finalmente dica cose alternative alla destra.

Giorgio Pagano
L’autore è presidente di Funzionari senza Frontiere e segretario generale della Rete delle Città Strategiche; alla Spezia presiede l’Associazione Culturale Mediterraneo.

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