L’attacco a Gaza segna il fallimento della politica. Ma la pace é interesse di Palestinesi e Israeliani
Il Secolo XIX – 20 gennaio 2009 – Il 26 gennaio sarà a Genova, al Carlo Felice, il musicista israeliano Daniel Barenboim: un grande pianista e direttore, fondatore, con l’intellettuale palestinese Edward Said, della West Eastern Divan Orchestra, dove suonano fianco a fianco musicisti arabi e israeliani. Scrive Barenboim: “Il conflitto tra israeliani e palestinesi è un conflitto tra due popoli che sono certi di avere un diritto storico, filosofico, esistenziale a vivere sulla stessa terra. Per questo motivo la soluzione non può essere militare: israeliani e palestinesi sono condannati a vivere insieme. Entrambe le parti devono riconoscere di aver sbagliato, e non incolparsi a vicenda”. Serve quello che nell’”Appello per Gaza” Ali Rashid e Moni Ovadia hanno definito “l’avvio di un processo di riconoscimento reciproco, del dolore dell’altro in primo luogo, che è il primo passo verso la riconciliazione”. Ce lo insegna anche un piccolo manuale di storia, “La storia dell’altro”, adottato in molte scuole israeliane e palestinesi: settecento ragazzi e una dozzina di insegnanti israeliani e palestinesi hanno scritto insieme le loro due versioni della storia del ‘900, quella che per i palestinesi è una storia di conquista di cui sono vittime e che per gli israeliani è storia di un “ritorno”. Con un obiettivo: essere consapevoli dell’esistenza e del diritto dell’altro e darsi la possibilità di conoscerlo meglio.
Queste parole hanno ancora un senso dopo la tragedia di Gaza? O sono ormai impronunciabili?
Tutto ora è davvero più difficile. Fino a poche settimane fa avrei risposto, sulla base della mia esperienza, che la maggioranza degli israeliani e dei palestinesi accetta l’idea della convivenza dei due Stati. Avrei citato Amos Oz: “Alla fine i due Stati nasceranno. I leader non sono pronti, ma la gente sì. E’ un’operazione chirurgica della quale i dottori hanno paura, ma che il paziente è disposto ad affrontare”. Ma ora? La guerra a Gaza ha aumentato la spaccatura non solo all’interno dei palestinesi e tra Paesi arabi moderati e radicali ma anche tra israeliani e palestinesi. Quello che è accaduto è stato uno straordinario incoraggiamento al fondamentalismo e all’odio dei palestinesi contro Israele e l’Occidente.
A Gaza le colpe sono state di tutti, sia chiaro. La pace, in quella terra, in fondo non c’è mai stata. Nel 2005 la decisione di Sharon di uscire da Gaza fu unilaterale, non concordata con il Presidente dell’ Autorità Palestinese Abu Mazen. Un’arroganza che partorì i disastri che hanno portato alla guerra di questi giorni. I coloni evacuarono la striscia ma Israele mantenne il controllo dei cieli, del mare, dei confini. Gaza in realtà era priva di autonomia. Abu Mazen, umiliato e indebolito, fu sconfitto alle elezioni da Hamas, che visse il ritiro israeliano come il primo passo per cominciare, con il lancio dei razzi, l’attacco ad Israele. E Israele ha reagito, con violenza sconvolgente.
Ma resta più che mai valida la domanda che scaturisce dalla storia dell’occupazione israeliana in Palestina: quante sono state le risposte dell’esercito di Israele alle azioni di guerriglia, agli attentati, ai lanci di razzi? E quale risultato ne è venuto se non una nuova spirale di violenza e una radicalizzazione dei palestinesi?
Ecco perché appaiono giuste le parole di Avraham Yehoshua: “Israele può aiutare la gente di Gaza a cambiare opinione…dipenderà soprattutto da ciò che Israele farà in Cisgiordania: la politica degli insediamenti, delle colonie e degli avamposti illegali dovrà subire un radicale cambiamento”. La modifica della politica israeliana “darà agli abitanti di Gaza, stremati e in lutto, la speranza e la determinazione di voltare le spalle ad Hamas”. Un processo di pace da cui i palestinesi avessero la sensazione di trarre vantaggi concreti contribuirebbe a sconfiggere il fondamentalismo islamico e a rafforzare Abu Mazen e la componente laica della politica palestinese. La situazione interna palestinese cambierebbe profondamente. L’Autorità Palestinese non è solo corruzione: in Cisgiordania ho conosciuto anche tanti dirigenti vicini alle sofferenze del popolo. Anche Hamas non è un’organizzazione monolitica, ma è attraversata dalle differenze tra componenti estremiste e pragmatiche, destinate ora ad accentuarsi. In Hamas potrebbe prendere il sopravvento l’ala terrorista, quella che a novembre riprese a sparare razzi su Israele probabilmente per sabotare la disponibilità negoziale della fazione pragmatica. O viceversa: e in tal caso l’unità tra i palestinesi potrebbe conoscere una fase nuova. Un’ alleanza tra Hamas e Abu Mazen è essenziale per il futuro dei palestinesi e per moderare l’estremismo di Hamas. Con la pace, insomma, tutte le forze in campo sarebbero spinte a cambiare in meglio. Si pensi al ruolo che potrebbe svolgere, fuori dal carcere, un uomo carismatico come Marwan Barghouti. E alla possibilità che dalla diaspora tornino tante energie disponibili ad impegnarsi per la loro patria.
Tutto ciò dipenderà dai palestinesi stessi ma soprattutto da Israele, come dice Yehoshua. L’accordo è anche nell’interesse degli israeliani e della loro sicurezza. Noi dobbiamo capire non solo la loro paura delle bombe e dei razzi, ma anche quella che David Grossman definisce “l’ansia ebraica”, l’esperienza della persecuzione, il passato di vittime, il senso di solitudine che è profondamente inciso nella psiche degli ebrei. Ma solo la pace potrà dare sicurezza ad Israele. “Bisogna parlare con i palestinesi, anche con Hamas”, scrive Grossman, “anche se sembra un’opzione disperata”: perché “a lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e i loro abitanti”. Il futuro di Israele, come ha detto l’ex Presidente del Parlamento Avraham Burg, “non è quello di portavoce dei morti della Shoah”, è nella compenetrazione con l’Oriente, nella relazione con le altre vittime di questa terra.
E poi molto dipenderà da un’assunzione di responsabilità di coloro che sono stati colpevolmente assenti in questi anni: l’Unione europea e gli Stati Uniti. E’ stato il fallimento della politica a dare forza al fondamentalismo. Lo può sconfiggere, facendo tornare pronunciabile la parola pace, solo un grande ritorno, coraggioso e generoso, della politica.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche)
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