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La sinistra riparta dall’uguaglianza

a cura di in data 1 Marzo 2010 – 10:08

Il  Secolo  XIX – 1° marzo 2010 – The Guardian l’ha definito il libro più importante del 2009: è “La misura dell’anima. Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici”, degli epidemiologi britannici Richard Wilkinson e Kate Pickettt. Ciò che è molto stimolante nel libro è la dimostrazione -sulla base di ricerche empiriche e statistiche- che oltre una certa soglia di reddito non c’è proporzione tra crescita della ricchezza e miglioramento della qualità media della vita delle persone. I dati spiegano che la crescita economica, a lungo il grande motore del progresso, ha quasi esaurito i suoi effetti benefici per le società ricche. I Paesi benestanti, situati tra il reddito procapite del Portogallo e degli Stati Uniti, quelli in cui le disuguaglianze sono più forti, mostrano sistematicamente risultati peggiori per una serie di indicatori sociali di benessere/malessere. Per citare i principali: disagio mentale, inclusa la dipendenza da alcol e droghe; speranza di vita, mortalità infantile e molte malattie; obesità; rendimento scolastico; gravidanze in adolescenza; omicidi; tassi di incarcerazione; mobilità sociale; fiducia/sfiducia nel prossimo e nelle istituzioni. La chiave per capire perché un Paese consegue risultati migliori o peggiori di un altro in ognuno di questi indicatori è la disuguaglianza. Si vive mediamente meglio, ci dimostra il libro, in società dove le disuguaglianze di reddito, di cultura e di opportunità sono più ridotte: Giappone, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca. Si vive peggio dove le disuguaglianze sono maggiori: e i malesseri generati dalle disuguaglianze coinvolgono tutti, non solo i ceti più svantaggiati ma anche quanti si collocano al vertice della scala sociale.
La tesi del libro è chiara: se si vuole avviare un nuovo ciclo di crescita che ponga al centro la qualità della vita e non solo il Pil, occorre intervenire per ridurre la forbice sociale. Le strade possono essere diverse: i Paesi scandinavi hanno optato per un meccanismo redistributivo di imposte e sussidi, il Giappone ha conseguito una maggiore uniformità di redditi di mercato al lordo di imposte.
E l’Italia? E’ sesta nella classifica dei Paesi più disuguali. Nel corso degli ultimi 15 anni, mentre i redditi da lavoro sono stati sostanzialmente fermi, quelli da capitale sono cresciuti del 44%. Dal ’93 ad oggi la quota di persone in difficoltà, vale a dire con meno del 70 per cento del reddito medio, è aumentata di quattro punti tra gli operai e di un punto e mezzo tra gli impiegati: nello stesso periodo, quella quota è scesa di undici punti nel lavoro autonomo (dove pure c’è un popolo di partite IVA e di piccoli commercianti in difficoltà).
La sfida principale della sinistra, in Italia e nel mondo, è questa: come porre un rimedio alle disuguaglianze sociali generate dallo sviluppo senza regole del turbocapitalismo, cresciute anche negli anni -ecco il punto- in cui la sinistra ha governato. E’ una sfida che non può che partire da un’autocritica radicale. Dopo Romano Prodi, con il suo articolo di Ferragosto sulla subalternità delle idee della sinistra al pensiero dominante, la voce più chiara è stata, nei giorni scorsi, quella di Massimo D’Alema. I due veri leader della sinistra, i più lucidi ma anche quelli con maggiori responsabilità: per due volte hanno sconfitto Sivio Berlusconi, e per due volte sono usciti a loro volta sconfitti dalla prova del governo. Nella sua conferenza alla London School of Economics and Political Science D’Alema è stato netto: la sinistra europea si è mossa “nel solco di una cultura neoliberale” ed è quindi “tra le forze responsabili della crisi di oggi”. Ora, ha aggiunto, “il primo grande problema per i progressisti è rimettere con forza le radici nel popolo: a cominciare dalla capacità di riscoprire il conflitto sociale nelle sue forme moderne e di dare rappresentanza al mondo del lavoro e ai suoi interessi”. D’Alema riconosce l’errore: l’aver considerato il conflitto sociale come un ostacolo antimoderno allo sviluppo. Mentre invece la democrazia vive sul compromesso tra interessi in lotta: un mondo pacificato e senza conflitti, per dirla con Michael Walzer, è un universo senza libertà. Il leader democratico ha ammesso, poi, che “in questi anni abbiamo avuto pudore a porre il tema dell’uguaglianza, preferendo parlare di uguaglianza delle opportunità. Un tema certamente giusto, ma nello stesso tempo bisogna riprendere con forza un impegno per una distribuzione più equa della ricchezza”. C’è qui il riconoscimento di un altro errore: la riduzione del principio di uguaglianza alla sola prevalenza del merito e delle opportunità. Bisogna premiare meriti e talenti, ma la sinistra non può risolvere la sua vocazione a difendere l’interesse dei più deboli solo in questo: essa deve difendere anche chi non ha capacità particolari da far valere. Ritorna attuale, quindi, il grande tema posto vent’anni fa da Norberto Bobbio sull’aspirazione all’uguaglianza come tratto distintivo della sinistra dopo la caduta del muro di Berlino. Tema poi ripreso da Pietro Scoppola:  prima un socialista liberale, poi un cattolico democratico. Non due nostalgici del Pci.
La sinistra in questi anni è apparsa debole nella sua identità e incapace di andare oltre al pragmatismo; quindi disarmata di fronte al populismo e ai valori tradizionalisti della destra. Di troppo pragmatismo la sinistra è morta, sopraffatta da una “voglia di fare” priva di ideali. Con il valore dell’uguaglianza può superare il suo basso profilo e tornare ad indicare un disegno di società. Cantando con la sua voce senza più imitare la voce degli altri.

Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).

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