La sinistra perde se stessa se tradisce gli operai
Il Secolo XIX – 22 giugno 2010 – La vicenda di Pomigliano ci ricorda che gli operai e la sinistra non sono più di moda. Lo erano nel dopoguerra: tra tante illusioni sbagliate, resta il fatto che per la prima volta le classi subalterne migliorarono la loro condizione economica e la loro influenza sociale. Negli anni ’80 è iniziata la caduta: meno reddito, meno welfare, meno sicurezza -fino alla strage della Thyssen-Krupp-, più precarietà. E, insieme, il cambiamento dell’identità, della coscienza di sé degli operai.
L’accordo di Pomigliano è una nuova pagina di questa storia di decadenza e perdita di dignità della classe operaia italiana. Giulio Tremonti l’ha presentato così: “Sarà un modello per tutti. Con la globalizzazione è finito il conflitto capitale-lavoro”. E’ “l’epoca dopo Cristo” di cui parla Sergio Marchionne: se nei Paesi più poveri i lavoratori, per non essere disoccupati, sono costretti ad accettare condizioni di lavoro durissime, non ci sono alternative al fatto che ciò debba avvenire anche da noi. Altrimenti le fabbriche verranno trasferite altrove, dove i lavoratori già non sono più persone, ma robot. E’ vero che “toccherebbe alla politica provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, per le persone non meno che per le imprese”, come ha scritto Luciano Gallino. E che la sinistra dovrebbe uscire dal silenzio degli ultimi decenni e ricominciare ad essere “pensante”, dopo la subalternità al fondamentalismo di mercato, diventando “sovranazionale” e riproponendo il tema della “riforma” del capitalismo.
Ma intanto, e almeno, la sinistra dovrebbe non abdicare alla propria ragion d’essere, e quindi giudicare l’accordo di Pomigliano come una soluzione profondamente sbagliata perché lesiva del diritto di sciopero e della contrattazione collettiva. Una soluzione che verrà riproposta, d’ora in poi, da ogni impresa in difficoltà. Tra tante voci balbettanti e incerte, sono stati in pochi a distinguersi. Pierre Carniti, ex segretario della Cisl, ha parlato, d’accordo con la Fiom, di “un accordo da non firmare”. Nel Pd solo Sergio Cofferati ha espresso bene “il senso e la decenza minimi di ciò che chiamiamo sinistra”, per dirla con Nichi Vendola. Nell’identità della sinistra ci sono infatti quel legame tra libertà, eguaglianza e lavoro e quell’intreccio indivisibile tra diritti civili e sociali che sono il cuore delle democrazie moderne e della nostra Costituzione.
Tante considerazioni di questi giorni sono giuste: c’è una questione sociale drammatica rappresentata dall’assenza di futuro per i figli degli operai di Pomigliano e per tutti i giovani italiani; la politica non può individuare l’insieme del lavoro più fragile nel solo lavoro dipendente, perché la crisi colpisce artigiani, commercianti, partite Iva… Ma non possono costituire un alibi per considerare tutto negoziabile, anche diritti costituzionali come quello di sciopero, o per penalizzare chi è realmente malato nel nome della giusta lotta all’assenteismo. Così come per migliorare la produttività c’è già un contratto dei metalmeccanici che prevede una forte flessibilità. E poi bisogna porsi con spirito di verità una domanda: la decisione della Fiat di investire a Pomigliano è positiva, ma può fare diversamente con tutti i soldi pubblici incassati e dopo aver già deciso di chiudere Termini Imerese?
Ora ci sono due anni prima che l’investimento vada a regime. Il tempo per rimediare c’è. Anche nell’interesse della Fiat: perché, lo ha detto Carniti, “un sì estorto con il ricatto è una vittoria di Pirro, se si sopraffà l’interlocutore questo prima o poi esplode”. Ma va sconfitta la linea del Governo: le deroghe ai diritti fondamentali, l’incoraggiamento alle imprese a contrattare in sede aziendale e a fare a meno del contratto nazionale che garantisce l’eguaglianza dei diritti dei lavoratori, fino alla modifica dell’art. 41 della Costituzione, non per liberare, come è giusto, le energie produttive del Paese ma per eliminare ogni vincolo al primato assoluto del profitto.
E’ il compito di una sinistra che in questi anni ha subito una sorta di “svuotamento”, scrive nel suo libro “Il midollo del leone” Alfredo Reichlin. Il centro delle sue riflessioni è: “Dove va la sinistra se non riusciamo a ristabilire un rapporto nuovo, non passivo, tra masse e potere, tra politica e popolo?”. Aggiungo: se non impedisce che la guerra tra poveri nel mondo si scateni tutta addosso ai nostri poveri senza che i nostri ricchi se ne facciano carico? La sinistra deve rimettere in gioco forze popolari profonde e porre al centro i diritti del lavoro. In questo modo non solo recupererebbe un legame con i ceti più deboli che oggi le sono distanti, ma darebbe anche una prospettiva al Paese e ricostruirebbe un rapporto con i giovani e le altre forze produttive. Anche i precari e i piccoli imprenditori, non solo gli operai sentono il bisogno di una sinistra che faccia la sinistra e, con le sue ragioni, indichi una visione del futuro dell’Italia. Dimenticare i diritti di chi sta alla catena di montaggio, abolire la sinistra per “conquistare il centro” significa amputarla del rapporto con il popolo e toglierle la possibilità di diventare maggioranza sociale e politica.
Giorgio Pagano
L’autore si occupa di cooperazione in Palestina e in Africa ed è segretario generale della Rete delle città strategiche; alla Spezia presiede l’Associazione Culturale Mediterraneo.
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