Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

Leggi articolo intero »
Crisi climatica e nuove politiche energetiche

Economia, società, politica: anticorpi alla crisi

Quale scuola per l’Italia

Religioni e politica

Ripensare il Mediterraneo un compito dell’Europa

Home » Il Secolo XIX nazionale, Rubrica Opinioni

La FIOM può sbagliare ma non va isolata

a cura di in data 5 Gennaio 2011 – 10:07

Il  Secolo  XIX – 5  gennaio  2011 – “Troppo spesso a sinistra si sviluppa uno stucchevole dibattito sull’innovazione senza accorgersi che può rappresentare anche un profondo arretramento”, ha dichiarato il segretario della Cgil Susanna Camusso commentando l’accordo separato di Mirafiori. E’ vero, successe dopo Pomigliano (presentato come un’eccezione, mentre era l’inizio di una strategia) e ricapita oggi. Pochi ragionano sui contenuti degli accordi, molti si preoccupano solo di accusare la Fiom di fare battaglie “ideologiche” e “antagoniste”.
Eppure nell’intesa di Mirafiori ci sono dati di fatto inconfutabili. Si smantella il contratto nazionale, cancellando un quadro normativo chiaro e certo. Rimane solo il contratto aziendale. L’obbiettivo è far cadere dovunque questo “tetto comune”, senza considerare quanto potrà accadere nelle piccole e medie aziende: la proliferazione incontrollata di sigle sindacali e una giungla di rivendicazioni, con una progressiva corsa al ribasso sul piano delle condizioni di lavoro e dei diritti. E’ un modello aziendalista che metterà totalmente in crisi non solo il ruolo dei sindacati, ma anche quello di Confindustria. Intanto alla Fiat verrà applicato il nuovo mantra dell’industria automobilistica mondiale, il World Class Manufacturing, cioè più straordinari, meno pause e meno giorni di malattia pagati, con l’aggiunta che i lavoratori che sciopereranno contro l’intesa potranno essere licenziati.
A Mirafiori, inoltre, si peggiora l’intesa di Pomigliano, perché si cancella il diritto ad essere rappresentato al sindacato che non firma l’accordo. Chi ci sta bene, chi non ci sta deve scomparire dalla fabbrica. E’ una concezione autoritaria di “fabbrica-caserma”, lontanissima dal modello sociale europeo e da quella Germania citata a sproposito, perché è in realtà il Paese della partecipazione, dei comitati di sorveglianza in ogni fabbrica e di sindacati che non firmerebbero mai un contratto come quello di Mirafiori.
Siamo di fronte a un arretramento drammatico delle condizioni di lavoro e dei diritti dei lavoratori: altro che innovazione, per dirla con Camusso. E’ l’importazione delle relazioni industriali degli Usa, assai più arretrate che da noi (anche se rese più sopportabili da una mobilità sociale che nella nostra società bloccata  è del tutto assente). Ma ci saranno, comunque, benefici per la competitività? C’è da dubitarne, se è vero che la Toyota, “madre” del modello di Sergio Marchionne, ha dovuto ritirare nel 2009 dieci milioni di autoveicoli difettosi. Tirare troppo la corda, insomma, non giova mai a nessuno. Servirebbero, piuttosto, quelle innovazioni di processo e di prodotto che hanno portato al successo delle fabbriche tedesche e francesi, di cui da noi non c’è traccia. Il problema della Fiat, che vede calare le sue immatricolazioni in Europa di 15 punti percentuali più degli altri, è infatti soprattutto un problema di ricerca e di qualità. Nessuno sa ancora che cosa contenga il piano Fabbrica Italia, e a che cosa serva il pur necessario recupero di produttività. A Mirafiori si produrranno i Suv: sono sempre posti di lavoro, ma non c’è il rischio di accomodarsi in un settore non innovativo, lontano da quelli  che faranno la storia dell’auto?
“Marchionne è antidemocratico, illiberale e autoritario”, ha detto ancora la Camusso. Sono questi i tratti del prossimo referendum capestro, in cui ai lavoratori sarà posta una domanda che è un ricatto: “Preferite questo accordo o la chiusura della fabbrica?”. Questa cancellazione dell’autonomia sindacale comporta uno stravolgimento in senso autoritario della nostra democrazia. Per rispondere alla sfida della competitività si mette al centro il profitto e si riorganizza l’economia imponendo l’interesse dell’impresa come interesse generale. Ma lo stesso obbiettivo può essere raggiunto con una tenuta della democrazia e della partecipazione e con la centralità dei diritti e del lavoro. Il modello Marchionne rilancia quindi la fisiologica dialettica tra destra e sinistra: l’alternativa tra esse è ora davvero forte  e visibile. C’è una tendenza, tutta dentro la concreta fase storica, che rende impossibile la costruzione di alleanze larghe e “governi di responsabilità”, e fa a pezzi l’idea, all’origine del Pd veltroniano, che si possa cancellare la sinistra e “rappresentare tutta la società”, senza contrapporsi nettamente alla destra nel nome del lavoro e dei diritti.
Il Pd deve trarne le conseguenze. La teoria di “fare di necessità virtù” è, in questo contesto, di una miopia assoluta. Sostenere che “non ci sono alternative”, come fanno Cisl, Uil e una parte del Pd, porta ad accettare ogni obbrobrio. Siamo tornati ai reparti confino contro la Cgil degli anni cinquanta: l’idea è la stessa. La Cisl anticomunista di Giulio Pastore nel 1958 espulse 105 dei suoi 114 delegati alla Fiat proprio per denunciare quei reparti: perché rifiutava il ruolo di sindacato aziendalista che oggi accetta. Che fare, allora? E’ vero, l’azione sindacale avrebbe bisogno, nota Giuseppe Berta su questo giornale, “del sostegno del Governo”, che da noi, “a differenza che negli altri Paesi, non è intervenuto a difesa dell’industria nazionale”. E, aggiungo, di un Pd meno incerto nella difesa dei diritti  e del lavoro e più capace di una proposta alternativa.
La Fiom, in tutte le elezioni, aumenta i suoi voti e i suoi delegati. E’un sindacato propositivo, che fa accordi in tutta Italia. Può commettere errori, ma isolarla sarebbe un errore drammatico. Anche quando, nel 2002,  la Cgil si mobilitò contro il tentativo di abrogare l’articolo 18 (quello che vieta i licenziamenti immotivati) una giusta battaglia per i diritti fu accusata di “radicalismo”. Eppure vinse, e il Governo dovette fare marcia indietro. Oggi il tema è questo: il lavoro non può più essere ignorato. Va data visibilità e voce a 18 milioni di lavoratori invisibili. Cgil e Pd non devono lasciare sola la Fiom.

Giorgio Pagano
L’autore si occupa di cooperazione in Palestina e in Africa ed è segretario generale della Rete delle città strategiche; alla Spezia presiede l’Associazione Culturale Mediterraneo

Popularity: 2%