La crisi è un’occasione per aiutare i Paesi poveri
Il Secolo XIX 22 giugno 2009 – La crisi economica si sta propagando a macchia d’olio in ogni angolo del pianeta, colpendo anche i Paesi in via di sviluppo. E’ una lezione della storia: quando si verifica una crisi solitamente chi ha meno responsabilità è al tempo stesso chi ne viene colpito più fortemente ed ha meno possibilità di farvi fronte. Ormai è chiaro che gli Obbiettivi del Millennio, la formula-slogan con cui i potenti della terra avevano preso, nel 2000, l’impegno di dimezzare la fame nel mondo entro il 2015, molto difficilmente saranno realizzati.
Il rapporto 2008 della Fao sulla “sicurezza alimentare” era un grido di dolore: il numero degli esseri umani sottonutriti non diminuisce ma aumenta, e sfiora il miliardo: 963 milioni, 40 in più rispetto al 2007, 115 in più rispetto al 2006. Ad oggi sono oltre il miliardo, ha detto il 19 giugno il Direttore generale della Fao Jacques Diouf, annunciando l’ennesimo vertice dei Capi di Stato, che si terrà il prossimo novembre a Roma. Il 65% degli affamati vive in soli sette Paesi: nell’Africa subsahariana una persona su tre è cronicamente affamata.
Poche settimane fa l’allarme è venuto dalle riunioni del G8, del G20, del Fmi e della Banca mondiale: le cifre spiegano che il cauto ottimismo dispensato da governi di mezzo mondo non comprende i Paesi più poveri. La Banca mondiale intende per povertà estrema quella di chi sopravvive con meno di 1,25 dollari al giorno e ora rischia di non avere più nemmeno questi pochi denari: è una povertà che rischia di crescere, coinvolgendo nel 2009 90 milioni di persone in più. Le cause stanno in un cocktail micidiale di eventi concatenati, come il crollo delle esportazioni, lo stop dei flussi di capitale, il calo delle rimesse degli immigrati.
L’Africa, nonostante tutto, ha compiuto passi in avanti incoraggianti negli anni 2006-2007: il tasso di crescita ha avuto un andamento crescente, giungendo al 6% nel 2007. Ora è tutto in discussione. Gli Obbiettivi del Millennio si allontanano, soprattutto per quanto riguarda la riduzione della povertà, la mortalità infantile, la salute materna e la lotta contro le pandemie. A ciò si aggiunge che la fuga dei cervelli priva il continente di buona parte della capacità intellettuale essenziale per il suo sviluppo futuro. Il rischio tangibile, denuncia una risoluzione del Parlamento europeo, è che le risorse dell’Africa servano alla globalizzazione, ma che le sue popolazioni non traggano affatto beneficio dall’inclusione nella globalizzazione. Come dimostrano anche i gravissimi problemi causati dai cambiamenti climatici e dalla scarsità d’acqua. Insomma, per dirla con il Premio Nobel Amartya Sen, “la globalizzazione non va interpretata come un processo di occidentalizzazione del mondo”.
Come aggredire le cause profonde della povertà e costruire uno sviluppo sostenibile e vantaggioso per tutti? I due principi a cui informarsi, ha detto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo intervento in occasione della Giornata per l’Africa, sono ownership e partnership: “alla consapevolezza da parte africana della propria responsabilità primaria (ownership) nel gestire le sorti del continente, ed al sincero rispetto di quest’ultima da parte dell’intera comunità internazionale, deve affiancarsi il costante, attivo sostegno dei Paesi più ricchi per una crescita politica ed operativa delle istituzioni collettive africane”, anche regionali e locali. Non si tratta soltanto di un primario dovere morale contro l’ingiustizia sociale, ma anche di un investimento sul futuro comune, a beneficio dei Paesi poveri e di quelli più sviluppati: il tema dell’immigrazione, che così tanto inquieta la nostra opinione pubblica, potrà essere governato solo se accompagnato da politiche che aiutino i Paesi poveri a creare lì opportunità di vita, lavoro, dignità.
E’ necessario, quindi, come scrivono Kofi Annan, Michel Camdessus e Robert Rubin dell’Africa Progress Panel, che “le nazioni del G8 e dell’Ocse adempiano agli impegni assunti nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, in particolare per quanto riguarda gli aiuti, e non utilizzino la crisi economica come un pretesto per abbandonarli”. In Italia questo abbandono c’è stato: un taglio di oltre il 50% delle risorse per la cooperazione nel triennio 2009-2011, che aggrava ulteriormente il ritardo registrato dall’Italia nel rispetto degli Obbiettivi del Millennio. Sembra incredibile, ma è il Paese che presiederà e ospiterà il G8 a dare l’esempio più negativo. Un duro j’accuse viene dal rapporto di One, l’organizzazione di Bono Vox e Bob Geldof, secondo cui Italia e Francia sono responsabili dell’ 80% degli aiuti mancanti rispetto agli impegni del G8 di Gleneagles del 2005, presente Silvio Berlusconi. “Le promesse fatte ai deboli sono sacre: se le tradisci li uccidi”, dice Geldof.
Eppure, spiega la Fao, servirebbero 30 miliardi di dollari l’anno per assicurare a tutti il diritto al cibo: una cifra grande, ma molto inferiore alle centinaia di miliardi di dollari impegnati in questi mesi per il salvataggio di banche e imprese nella parte più ricca del mondo.
Per stanziarli, però, non basta tornare alla “normalità” del passato, prima della crisi. Nemmeno allora li si stanziava. Serve, invece, sostiene Luciano Gallino, “sviluppare un’idea diversa di sistema produttivo e finanziario normale”. E’ la stessa tesi di Sen: “la crisi economica è l’occasione per rivedere il modello di sviluppo…spero proprio che non si torni al business as usual una volta che il peggio sarà passato…benessere e regolamentazione del mercato sono questioni collegate”. Il dramma dei Paesi poveri si supererà solo se la crisi sarà d’impulso per riforme e cambiamenti radicali.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (rete città strategiche).
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