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Israele e Palestina, poco dialogo e troppi sordi

a cura di in data 17 Dicembre 2009 – 11:10

Il Secolo XIX – 17 dicembre 2009 – Sono appena rientrato da Betlemme, dove coordino un progetto di cooperazione dell’Unione europea per il piano di sviluppo della città. Sabato 28 novembre ho partecipato alla cerimonia del solenne ingresso di Padre Pierbattista Pizzaballa, il francescano Custode di Terrasanta, nella Basilica della Natività, che inizia le celebrazioni del Natale. La processione parte da Gerusalemme lungo un percorso storico, oggi interrotto, al confine con la Cisgiordania, dal muro israeliano che i palestinesi chiamano “dell’apartheid”. Il muro viene aperto, a Betlemme, solo in questa occasione: è un momento di gioia per tutti i cittadini, sia cristiani che musulmani, e un fatto simbolico, che spiega come il sogno palestinese dell’unità della sua terra abbia  profondissime radici.
Betlemme, in questi anni, ha conosciuto un aumento delle visite dei pellegrini e un forte sviluppo turistico. Ho visto alberghi, ristoranti, botteghe artigianali che se la cavano abbastanza bene. Una sera ho assistito a uno spettacolo di danze e canti di tutto il mondo. Non poteva che concludersi con le canzoni di “The Wall” (Il Muro) dei Pink Floyd, simbolo della ribellione libertaria, pubblicate  esattamente trent’anni fa.
Ma non c’è solo il muro, e i connessi posti di blocco, a rendere difficile la vita a Betlemme e in Cisgiordania. C’è soprattutto la crescita degli insediamenti dei coloni israeliani nei territori palestinesi, che anche per questo vengono definiti dall’Onu “occupati”. Da Betlemme si vedeva, fino a pochi anni fa, una collina verde, accanto a Gerusalemme: ora è interamente cementificata dalle case dei coloni. E’ la “ebraicizzazione” di Gerusalemme, che è da millenni la città simbolo della propria storia e identità non solo per gli ebrei ma anche per i palestinesi. Dovunque andassi i palestinesi, a Betlemme e in Cisgiordania, mi ripetevano, ossessivamente, “these are new settlements”, questi sono nuovi insediamenti. Cresciuti, durante il governo di Ehud Olmert, che pure trattava con il palestinese Abu Mazen, del 25%. La decisione del governo di Benjamin Netanyahu di bloccare gli insediamenti nei territori occupati ma di svilupparli ancora a Gerusalemme Est, la parte araba, non avvicina la soluzione del dramma del Medio Oriente, che resta molto lontana. E il discorso pronunciato da Barack Obama al Cairo a giugno, dedicato alla riconciliazione tra Occidente e Islam basata sul riconoscimento dei diritti di palestinesi e israeliani e sulla condanna dell’antisemitismo, sembra essere diventato un ricordo svanito.
Ha ragione Lorenzo Cremonesi sul Corriere: “Non c’è un processo di pace tra israeliani e palestinesi”. L’idea di un negoziato concreto è morta da un pezzo. Lo stallo ha radici che risalgono agli ultimi vent’anni. La debolezza di Arafat lo portò a fare sbagli: schierarsi con Saddam Hussein nella prima guerra del Golfo, non combattere a sufficienza i gruppi estremisti e terroristi, accettare di firmare gli accordi con Ytzack Rabin senza imporre il blocco totale delle colonie ebraiche nel cuore dei territori palestinesi. Rabin fu poi assassinato da un fondamentalista ebreo, figlio di quelle forze che oggi condizionano Netanyahu nello scontro sulle colonie. Israele sbagliò quando Ariel Sharon si ritirò da Gaza ignorando totalmente Abu Mazen: lo delegittimò e diede forza ad Hamas, che anche per questo vinse le elezioni del 2006. L’ultimo suo drammatico errore è stata la guerra di Gaza. E gli Stati Uniti di  Bill Clinton e di George W. Bush sbagliarono a non capire l’importanza decisiva della crescita degli insediamenti, e a non esercitare mai pressioni serie ed efficaci su Israele.
Ma se non si negozia più vengono fuori altre spinte. Tutti i palestinesi che ho incontrato mi hanno parlato della possibilità di una nuova Intifada, la terza: non violenta per Fatah, il partito di Abu Mazen, armata secondo Hamas.
Dopo questo viaggio, e dopo discussioni con due amici impegnati nel dialogo tra i due popoli, la scrittrice israeliana Manuela Dviri e il diplomatico palestinese Ali Rashid,  mi è sempre più chiaro che la soluzione “due popoli, due Stati” si sta allontanando e che è oggi poco realistica. Israele non vuole lo Stato palestinese e un accordo con Hamas e pensa che un accordo con Abu Mazen, cioè con mezza Palestina, non gli dia garanzie di sicurezza: che sia possibile, quindi, coesistere con un’occupazione per lei “poco costosa”. E Netanyahu è molto popolare nel suo Paese proprio perché difende gli insediamenti. I palestinesi, d’altro canto, sono troppo divisi, e la loro leadership vive un momento di profonda crisi.
Che fare? La cosa più importante, precondizione di un nuovo negoziato, è l’unità dei palestinesi. La svolta può venire dall’accordo per la liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit, prigioniero di Hamas a Gaza, in cambio di un migliaio di palestinesi detenuti in Israele, tra cui Marwan Barghouti, il leader della “young generation” di Fatah, candidato a succedere a Abu Mazen. Barghouti è la personalità più popolare in Palestina: l’unico, come mi ha detto un amministratore di Betlemme, “in grado di unire Fatah e Hamas” e nel contempo di “parlare al mondo, perché non ci lasci soli”.
E Israele? Deve trovare la forza di fare i conti con quella sua parte che non vuole i due Stati e che punta a costruire un grande Stato di Israele. Nel quale, come ha ricordato Bill Clinton  sul Sole 24 ore, per motivi demografici gli ebrei non saranno più maggioranza: “a quel punto dovranno necessariamente decidere se continuare a essere una democrazia e non essere uno Stato ebraico, oppure se continuare a essere uno Stato ebraico e non più una democrazia”. Certamente il governo attuale non sa guardare lontano. Anche Israele ha bisogno di una nuova leadership, che capisca che il sogno palestinese ci sarà sempre, come quello sionista, perché alimentato dalla fede. E che i due sogni possono solo convivere.
Infine, Barack Obama. I suoi risultati in Medio Oriente sono stati, finora, molto modesti. Forse perché le sue priorità sono altre: la Cina per l’economia, l’Afghanistan e l’Iran per la sicurezza… Dovrebbe essere l’Europa a suggerirgli un cambio di rotta. Ma esiste ancora, politicamente, l’Europa? La recentissima proposta del Consiglio dell’Unione su Gerusalemme capitale dei due Stati è purtroppo solo un flebile segno di voce,

Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche)

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