Il PD e la sua sfida decisiva: convincere gli Italiani che sa governare e rendere più giusta la modernità
Il Secolo XIX – 6 maggio 2008 – Il linguaggio diffuso, che è la spia rivelatrice dei mutamenti che investono la società e la politica, riflette oggi un offuscamento di prospettive. Le parole più usate sono modernizzazione, innovazione, riformismo. Espressioni, ha scritto Ferruccio Capelli, direttore della Casa della Cultura di Milano, ”che presuppongono cambiamento e accelerazione,ma che non lasciano intravedere un senso di marcia”. Concetti che comunicano che non si può stare fermi, ma che non ci dicono qual è la direzione del cambiamento. Tant’è che sono usati indifferentemente dai due schieramenti.
Riformismo è la parola più abusata: tutti si proclamano riformisti. Così il termine ha cambiato significato rispetto a quello originario: la via gradualista e democratica, opposta a quella rivoluzionaria, per rendere la società più giusta.
Oggi dietro la parola riformismo si nascondono troppe opzioni diverse, anche nel centrosinistra. Il riformismo del centrosinistra al governo è stato un riformismo debole. Perché non ha conseguito la crescita, l’efficienza economica, la qualificazione della spesa pubblica e nel contempo ha consentito che passasse una profonda redistribuzione della ricchezza a danno del reddito fisso e a favore di profitti e rendite. Come ha ricordato Draghi, in Italia il 10% possiede il 45% del reddito: gli italiani sono sempre più disuguali.
Il riformismo è stato debole non solo nel campo economico e sociale -dove pure sono stati ottenuti risultati importantissimi per il risanamento e quindi per la tenuta del Paese- ma anche in quello dei diritti civili e delle libertà individuali. E soprattutto in quello culturale e del sistema dei valori: da qui la sconfitta di fronte al populismo e al privatismo e a una cultura che permea il sentire di tanti italiani.
Il centrosinistra ha perso perché la parte più debole del Paese si è spostata verso il centrodestra o l’astensione. E perché non ha saputo conquistare l’elettorato di centro. Quando le differenze si attenuano e non c’è un confronto tra culture alternative, a trarne vantaggio è la spregiudicatezza del populismo.
C’è, comunque, un fatto decisivo: un partito al 33%, che ora deve strutturarsi, conquistare identità, costruire un solido patrimonio culturale alternativo al centrodestra, usare parole che indichino il senso di marcia di una società più giusta: una crescita che riduca le disuguaglianze e non distrugga più la natura, la centralità del lavoro umano -“il nostro punto di partenza”, ha scritto Vittorio Foa- e l’ alleanza con l’impresa, il governo del mercato (la critica al neoliberismo che emerge ovunque nel mondo non può essere lasciata in Italia al protezionismo di Tremonti e Bossi), i diritti e le libertà, la sicurezza e l’accoglienza responsabile…
Nessuna nostalgia per il passato. C’era bisogno di scuotere l’albero dei vecchi partiti. Ma ora c’è bisogno di un grande confronto non conformista che fondi davvero un partito nuovo, capace di rinverdire i tratti distintivi di un progetto riformista di centrosinistra e di costruire su questa base nuove alleanze sociali e politiche.
Maggioranza e opposizione devono condividere i valori della Resistenza e della Costituzione, come ha indicato Giorgio Napolitano, e collaborare in Parlamento per ridare efficienza e funzionalità alle istituzioni con le riforme necessarie. Ma su tutto il resto la politica ha bisogno di soggetti con profili chiari, che esprimano idee diverse di società. Non serve, allora, un partito di centrosinistra “leggero”, brillante, mediatico, ma un partito con un radicamento territoriale e sociale, che abbia una vita interna democratica e trasparente, che combatta il cinismo che sta inquinando la politica, che elabori un pensiero critico e riflessivo, che influenzi culturalmente la società. La politica è fatta di valori, e il successo di un partito dipende dalla sua identità. Ora è questa la sfida per il Pd: un’identità che convinca i cittadini che il centrosinistra è capace di governare la modernità rendendola più giusta.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale allo sviluppo nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche)
Popularity: 3%