Il museo dell’Olocausto in Palestina parla di pace
Il Secolo XIX – 23 febbraio 2011 – Nei giorni scorsi una delegazione di un centinaio di personalità politiche e intellettuali del mondo arabo e musulmano si è recata ad Auschwitz, il più agghiacciante campo di sterminio nazista. E’ stato un segnale di grande rilevanza, per combattere nel mondo arabo e musulmano il fenomeno della negazione della Shoah. Anche se c’è un equivoco da chiarire: in questo mondo, nonostante le provocazioni del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, la negazione dell’Olocausto in stile occidentale, cioè il tentativo di produrre prove pseudoscientifiche secondo le quali il genocidio ebraico non sarebbe avvenuto affatto o sarebbe stato un massacro di proporzioni largamente inferiori a quanto comunemente riconosciuto, è in realtà molto marginale. Il rapporto del mondo arabo e musulmano con l’Olocausto è molto più complesso, come spiega lo storico libanese Gilbert Achcar. E di “reazioni complesse” parla anche lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua. Perché terribilmente complessa è la storia del popolo ebraico e di quello palestinese. Un insediamento degli ebrei in un luogo diverso dalla Palestina sarebbe stato inconcepibile: è la loro unica patria. Ma ciò è avvenuto privando un altro popolo, quello palestinese, della terra di origine. Alla Shoah seguì quella che i palestinesi chiamano la Nakba (catastrofe): l’esodo forzato della popolazione araba dalla Palestina dopo la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948. “Non è ammissibile -scrive Yehoshua- che un popolo possa ritrovare la propria patria a spese di un altro che la perde”. Da qui l’enorme difficoltà degli arabi a elaborare correttamente la tragedia degli ebrei concependola come una lezione universale che riguarda tutti i popoli perseguitati. Una difficoltà intimamente connessa a quella degli ebrei a capire che va rispettato non solo il loro vincolo con la patria ma anche quello che i palestinesi hanno con la loro. Ecco, allora, l’importanza del viaggio ad Auschwitz: per gli arabi come per gli ebrei. Per la causa della pace in Medio Oriente e della coesistenza di due Stati sovrani.
Il viaggio non è tuttavia un fatto isolato: si inserisce in un processo di riconoscimento pubblico da parte dei palestinesi degli insegnamenti universali della Shoah. Ricordo la visita di Yasser Arafat alla casa di Anna Frank nel 1998. Più recentemente, nel gennaio 2009, dopo la brutale aggressione israeliana a Gaza, a Bilin fu organizzata una manifestazione di protesta in cui i palestinesi indossarono un pigiama a righe simile a quello dei prigionieri ebrei nei campi di concentramento nazisti. La si può ancora vedere in un video della BBC. Era un messaggio evidentemente esagerato, spiega Achcar, ma ciò che si deve sottolineare è che “i palestinesi si siano identificati con le vittime ebraiche del nazismo e abbiano considerato l’Olocausto come il più alto standard di orrore, invece di negarlo”.
Ma l’evento più significativo è un altro: il 27 gennaio 2009, Giorno internazionale della Memoria, un piccolo museo dell’Olocausto è nato a Naalin, vicino a Ramallah., uno dei villaggi palestinesi simbolo della lotta nonviolenta contro l’occupazione israeliana. Si tratta di una mostra di fotografie sull’Olocausto con didascalie in lingua araba, messe a disposizione dalla direzione del memoriale Yad Vashem di Gerusalemme. Accanto ci sono immagini della lotta della gente di Naalin contro le confische delle terre e il muro. “Non abbiamo voluto mettere sullo stesso piano l’occupazione israeliana e la Shoah -spiega uno dei promotori del progetto, Hassan Musa- ma esprimere la nostra condanna di qualsiasi forma di brutale aggressione all’essere umano”. Israel News descrisse l’evento così: le vittime dell’occupazione hanno voluto “identificarsi con il loro occupante, e capirlo ulteriormente”. Ognuno, ecco la lezione di Naalin, deve conoscere, comprendere e condividere le sofferenze e il dolore dell’altro. E la memoria dell’Olocausto serve per lottare contro tutte le ingiustizie.
Il sindaco di Naalin, Ayman Nafaa, è disponibile a portare la mostra in Italia: è un’occasione per conoscere questa bellissima “prova di coesistenza” che proviene da fieri combattenti per la libertà del proprio Paese sostenitori al contempo della lezione universale dell’Olocausto. E anche per contrastare i sentimenti antiislamici così diffusi nel nostro Paese. Ed è naturale pensare alla città della Spezia e alla Liguria -le terre di Exodus, dell’accoglienza ai profughi della Shoah in partenza per un viaggio da cui sarebbe scaturita la Nakba- come sedi di questa iniziativa. Alla Liguria manca una “politica di relazioni internazionali”: perché non partire da qui?
Giorgio Pagano
L’autore si occupa di cooperazione in Palestina e in Africa ed è segretario generale della Rete delle Città Strategiche; alla Spezia presiede l’Associazione Culturale Mediterraneo.
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