I quarantacinque giorni della riscossa operaia
Il Secolo XIX nazionale, 3 settembre 2023
Il periodo che intercorre tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943 – la caduta del regime fascista e l’annuncio dell’armistizio con gli alleati – è un passaggio temporalmente breve ma cruciale per la storia italiana. La classe dirigente che aveva liquidato Mussolini si rivelò incapace della decisione richiesta dalla gravità del momento: una coraggiosa politica antitedesca.
Subito dopo l’annuncio della sostituzione del duce, il primo impulso di Hitler era stato di intervenire militarmente per restaurare il fascismo. Ma i suoi generali proposero una tattica più duttile: il rafforzamento continuo delle posizioni in Italia, fino all’occupazione pacifica del Paese. Ancora il 6 agosto, nel convegno di Tarvisio, il nuovo governo presieduto da Pietro Badoglio ribadì l’alleanza con i tedeschi. Così il 15 agosto, in un convegno a Bologna tra militari. I tedeschi, sostanzialmente indisturbati, portarono in Italia, tra la fine di luglio e la prima metà di agosto, sei divisioni e mezzo. Un’occupazione che sarebbe continuata fino all’8 settembre, con altre divisioni e con non meno di 120 mila uomini non inquadrati nelle divisioni. Solo il 17 agosto, quando le posizioni tedesche in Italia erano ormai definite, gli italiani decisero di trattare con gli anglo-americani, le cui proposte, offerte in numerose missioni esplorative, avevano fino ad allora rifiutato. Ma l’esercito non fu preparato all’imminente cambiamento di fronte e tutto fu trascinato per evitare uno scontro con i tedeschi, prendendo misure ambigue e contraddittorie. L’esercito italiano era logorato da tre anni di guerra, e molti comandanti periferici avevano un orientamento filotedesco: ma all’origine del baratro dell’8 settembre furono essenzialmente le esitazioni e le paure verso i tedeschi del re e delle alte gerarchie militari, come se si potesse uscire dalla guerra col consenso di entrambi i contendenti. Da un giorno all’altro l’Italia si trovò senza governo – Badoglio seguì il re nella sua fuga verso i territori già controllati dai nuovi alleati – e con l’esercito tedesco accampato nel nord e nel centro del Paese.
Il fallimento della classe dirigente aprì una fase drammatica della storia italiana. Ma in quei quarantacinque giorni si produsse un fatto molto importante: la classe operaia iniziò a riprendere vigore. Fu l’inizio di un processo al termine del quale uscì dalla guerra con un protagonismo assai significativo, come nessun’altra forza della società. Tanto più dopo essere stata per vent’anni marginalizzata nella scena politica.
Badoglio, sulla politica estera, fu sempre in sintonia con il re. Ma nella politica interna, e in particolare nel rapporto con il mondo operaio, si distinse dal re, che non a caso mostrò una profonda insoddisfazione per l’operato del governo.
Dopo il 25 luglio il processo di defascistizzazione fu molto stentato, e i comportamenti effettivi furono distanti dalle dichiarazioni d’intenti. La milizia fascista non fu incorporata nell’esercito, i fascisti più pericolosi e gli squadristi in fabbrica non furono quasi mai richiamati alle armi, i detenuti politici vennero liberati solo in parte, la legislazione razziale non fu abolita.
Le opposizioni antifasciste restarono sullo sfondo. Sia per le difficoltà del contesto sia per la loro debolezza interna. Le manifestazioni successive al 25 luglio furono in gran parte spontanee, senza una direzione politica precisa. I comunisti erano i più attivi, i più in grado di raccogliere gli orientamenti della classe operaia. Il ruolo del partito ad agosto fu più incisivo, sia rispetto agli scioperi del marzo 1943 che a quelli del luglio. Anche se le divergenze al suo interno non mancarono: il partito era stretto tra due esigenze, organizzare il malcontento popolare e tenere unito il fronte antifascista, dove convivevano tendenze più moderate, vicine a Badoglio, e più radicali, espresse dagli azionisti e a volte dai socialisti. I primi manifestini furono firmati da comitati unitari, sotto vari nomi ed etichette. Quello stampato a Milano il 26 luglio fu riprodotto il 28 a Genova e alla Spezia. Ma raramente i comitati avevano alle spalle partiti già ramificati e diffusi. Il 28 luglio, per esempio, il questore di Genova notava con rammarico che «non sempre vi siano ancora in loco iniziative per la ricostruzione dei vecchi partiti cosiddetti dell’ordine, onde contrastare l’azione comunista». Comparvero anche formazioni “inedite”, destinate a durare lo spazio di un mattino, come Progressismo. Partito italiano di rinnovamento sociale, che pubblicò a Savona un manifesto, ritrovato l’8 agosto. Si può dire che le agitazioni operaie avvennero nel complesso al di fuori delle decisioni delle opposizioni, e che progressivamente i partiti, i comunisti in primo luogo, cercarono di dirigerle. Anche gli scioperi di agosto ebbero la caratteristica di iniziativa autonoma dal basso, in grado di fare avanzare la situazione politica di vertice e in qualche modo di sbloccarla.
Le agitazioni iniziarono fin dai primi giorni di agosto, un po’ dappertutto e con motivazioni diverse: allontanamento dei fascisti, funzionamento delle mense, aumenti salariali. In Liguria scioperarono la SIAC a Genova il 9, la centrale del latte di Rivarolo il 12, la San Giorgio di Chiavari il 13. Fu un crescendo fino al 17-20 agosto, quando l’infittirsi degli scioperi assunse un più netto significato politico, in primo luogo a Torino e a Milano: per la rottura con la Germania e per l’effettiva liquidazione del fascismo. Gli effetti furono duplici: sul piano sindacale allentarono l’apparato repressivo e diedero impulso alla costituzione delle Commissioni interne; su quello politico generale accelerarono la rottura, peraltro mai del tutto consumata, tra il fronte antifascista e il regime badogliano.
Già agli inizi di agosto il ministro dell’Industria Leopoldo Piccardi conduceva le trattative per la nomina dei commissari confederali a capo delle nuove organizzazioni sindacali dei lavoratori: furono nominati il socialista Bruno Buozzi, il comunista Giovanni Roveda e il democristiano Gioacchino Quarello. La proposta fu accettata in cambio del rilascio dei confinati politici. Il 2 settembre si concluse la trattativa tra sindacati e Confederazione degli industriali, con un accordo nazionale sulla costituzione delle Commissioni interne, elette dai lavoratori. L’accordo, ha scritto Claudio Dellavalle, costituiva «un salto di qualità importante» perché «affermava un principio di libertà e insieme il metodo per poterlo realizzare», dopo vent’anni di dittatura. La democrazia fece il suo primo passo, significativamente, in fabbrica. Poi il precipitare degli eventi impedì di portare a compimento ciò che l’accordo aveva reso possibile: alla Spezia, per esempio, solo i lavoratori del Cantiere Navale Muggiano elessero i loro rappresentanti nella Commissione interna, due comunisti e un repubblicano. Ma fu uno spiraglio positivo, una prova di democrazia che aveva trovato nella fabbrica il suo primo momento di realizzazione.
Ad agosto in Liguria scioperarono, il 19, i lavoratori dell’Ilva di Savona e, il 23, quelli dell’OTO Melara della Spezia. Restò estranea Genova. Dopo gli scioperi e i caduti delle manifestazioni di fine luglio, i lavoratori genovesi, sotto la guida del comunista Arturo Delle Piane, furono protagonisti di un’esperienza originale: l’elezione dei propri rappresentanti nelle Commissioni interne, ben prima dell’accordo nazionale. Un impegno più sindacale che politico, nel segno della legalità, che fu poi avversato dal centro del partito, che esautorò Delle Piane. Un impegno non suffragato da una chiara strategia politica ma capace comunque di esercitare una forte influenza in fabbrica. Come ha scritto Antonio Gibelli in riferimento a Genova, i quarantacinque giorni «appaiono come un vero e proprio laboratorio delle relazioni industriali possibili all’interno di un gigantesco complesso delle partecipazioni statali». Ciò fu possibile grazie anche all’atteggiamento conciliante di Agostino Rocca, amministratore delegato del gruppo Ansaldo, un tecnocrate che aveva capito che il movimento operaio avrebbe avuto un grande sviluppo e che impostò una collaborazione che non doveva però derogare dal criterio dell’efficienza produttiva: una sorta di concertazione ante litteram.
In momenti e con caratteristiche diverse, sia pure con un movimento ancora debole, nei quarantacinque giorni era ormai stata innescata una svolta storica rispetto al ventennio, per la classe operaia, per il Partito comunista e per gli altri partiti antifascisti. Nemmeno gli stravolgimenti dell’8 settembre la misero in discussione: lo dimostrarono il grande sciopero del marzo 1944 e la partecipazione operaia alla Resistenza, fino al 25 aprile 1945.
Giorgio Pagano
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