Gli immigrati vogliono una buona scuola italiana
Il Secolo XIX – 29 dicembre 2009 – Il Cnel ha presentato nei giorni scorsi la ricerca su “Le domande delle famiglie immigrate nei confronti del sistema scolastico italiano”, realizzata dall’Università di Roma-Tre. I risultati sono di notevole valore conoscitivo e offrono un contributo all’elaborazione di una proposta di intervento riguardante il sistema formativo del nostro Paese: i problemi culturali e didattici posti dalle famiglie immigrate devono essere, infatti, un riferimento centrale per la riforma della scuola, tanto è il rilievo di questa presenza per il futuro dell’Italia.
I bambini stranieri, nell’anno scolastico 2007-2008, erano 575.000, il 6,4% della popolazione (in Liguria 17.500, pari al 9%). Il dato è in crescita anno dopo anno, si stima che salga a 700.000 nel 2009-2010. La scuola italiana, con questa presenza di diversità culturali, ha quindi l’occasione di uscire da un certo localismo e nazionalismo pedagogico per orientarsi verso una formazione cosmopolita e universalista, ripensando modelli organizzativi, orientamento culturale, finalità del processo formativo.
Ma vediamo i principali suggerimenti scaturiti dall’indagine. Per quanto riguarda l’organizzazione della scuola, i problemi posti dalle famiglie immigrate riguardano l’elaborazione di progetti formativi personalizzati di socializzazione e apprendimento linguistico e l’istituzione sistematica del tempo pieno che si faccia carico dei compiti per casa, dato che i genitori stranieri non hanno le competenze per aiutare i figli. Servono, allora, piani di formazione dei docenti per l’acquisizione delle competenze necessarie all’insegnamento della lingua italiana, una diffusa dotazione di laboratori linguistici da aprire anche ai familiari, la collaborazione indispensabile della figura del mediatore culturale, lo sviluppo e non i tagli al tempo pieno. E poi va superato il carattere non sistemico degli interventi, il fatto che ogni scuola lavori per lo più in modo separato dalle altre e senza collegamento con altri soggetti del processo formativo: è essenziale la comunicazione tra scuola, istituzioni locali, associazioni della società civile, creando reti sulla base di protocolli d’intesa e accordi di programma. La scuola diventa così “comunità educante” in grado di coinvolgere tutte le risorse, come nel caso straordinario della scuola dell’Esquilino a Roma, che vede collaborare la scuola con un’associazione di genitori, che la affianca con le sue attività. Questa piccola Onu con il grembiule, con ragazzi di oltre 30 nazioni diverse, è diventata un punto di riferimento per il quartiere, una sorta di piazza aperta a tutti.
Su questi aspetti organizzativi è utile, per una disamina della situazione regionale, un’altra ricerca recente: “La scuola plurale in Liguria”, curata da Francesca Lagomarsino e Andrea T. Torre per conto della Regione Liguria. Ne emerge un quadro differenziato, con esperienze più positive a Genova e a Spezia, soprattutto per l’utilizzo dei mediatori culturali e per la capacità di fare sistema.
Torniamo all’indagine Cnel e soffermiamoci sui contenuti. Il discorso delle famiglie straniere può essere riassunto così: chiediamo non solo socializzazione ma una formazione umana e professionale di alto livello, scuole serie e basate sul merito, con più matematica e inglese. Che inserisca i nostri figli nella società per il miglioramento della loro vita e della loro condizione sociale. Ma come raggiungere questo obbiettivo? Non si tratta di abbandonare le tradizioni culturali “italiane” ma di interpretarle alla luce della storia del mondo. Come dice nella ricerca una mamma somala, “bisogna che la scuola italiana insegni la cultura e le tradizioni italiane”. Non c’è contraddizione tra l’essere un “buon italiano” e l’essere un “buon cittadino del mondo”. Serve imparare anche altre lingue e culture, capacità di costruire relazioni…Tutto ciò che può aiutare i ragazzi a vivere e lavorare nel mondo globale. C’è molto da riflettere per i tecnici e gli esperti, perché preparino i nuovi curricula necessari a creare un contesto cognitivo orientato sia alla realtà locale che al mondo.
Infine le finalità: i genitori stranieri vogliono una scuola strumento di progresso sociale, che faccia studiare seriamente i loro figli perché non ereditino il loro mestiere e salgano nell’ascensore sociale. Come dice una studentessa: “non voglio fare la badante come mia madre, ma dare il meglio di me a me stessa, alla mia famiglia e alla società italiana”. La ricerca ci dice che questi ragazzi hanno un’identità italiana, e che non si può sfuggire al tema del riconoscimento della loro cittadinanza. Un minore nato in Italia o che in Italia frequenta le scuole deve acquisire i pari diritti dei coetanei con i quali affronta il percorso di crescita. Come in passato, la scuola deve formare il cittadino italiano partendo dalle diversità culturali: prima erano quelle delle regioni, dei campanili e dei dialetti, ora sono ancora più forti. Ma, come allora, ragazzi diversissimi sono accomunati dalla volontà di vivere nel loro Paese, l’Italia.
La ricerca del Cnel ci invita a far uscire il dibattito sugli immigrati dal “ghetto” dei dibattiti sulla sicurezza pubblica, per coglierne invece tutte le implicazioni in termini di qualità e varietà della nostra cultura e della nostra convivenza civile. Sono implicazioni di lunga durata sulla capacità innovativa del nostro Paese. Ragionamento che vale ancor di più in una regione così povera di giovani come la Liguria. Insomma: non chiudiamoci a riccio nei confronti della diversità degli altri ma scommettiamo sul nostro futuro. E, in particolare, partiamo dalla diversità per riformare la scuola nell’interesse di tutti i bambini, italiani e stranieri. Non lasciamo sola la scuola, però, in questa sfida. Istituzioni, partiti, sindacati , media devono fare di più, molto di più.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).
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