Federalismo via obbligata con flop dietro l’angolo
Il Secolo XIX – 30 marzo 2009 – L’Italia ha bisogno di federalismo: per mantenere il controllo della finanza pubblica, contenere la pressione fiscale, assicurare servizi adeguati ai cittadini. Per avere più equità e più efficienza. E per combattere la crisi economica: la ripresa non ci sarà senza il contributo dei territori, delle Regioni e dei Comuni.
Una riforma organica è necessaria e urgente. Il nostro sistema ha compiuto ormai troppi passi in direzione di un assetto federale, e indietro, al vecchio Stato centralista, non si può più tornare. Si tratta di un modello, del resto, inadeguato a governare la complessità delle attuali società: ovunque, ormai, si decentra. Ma dobbiamo organizzare e far funzionare bene il nostro Stato decentrato, obbiettivo dal quale siamo ben lontani.
La legge sul federalismo fiscale che ha concluso la seconda lettura alla Camera va nella direzione giusta? In parte sì. Il progetto iniziale, quello “secessionista” della Lega, per cui le aree ricche si tengono le tasse prodotte senza curarsi delle regioni più deboli, è stato abbandonato. Il compito della perequazione, prima affidato alle singole Regioni, è tornato allo Stato. Così come non c’è più l’Irpef su base regionale, che avrebbe creato venti sistemi fiscali diversi. Insomma, grazie soprattutto al ruolo dell’opposizione, c’è un federalismo più solidale e cooperativo. Ma resta una grande nebulosità. E’ rimasto aperto il nodo del “chi fa che cosa” nel sistema delle autonomie locali, cioè del ruolo delle Regioni e dei Comuni. E’ il problema del rapporto tra l’impostazione regionalista della Lega e la natura di una Repubblica che riconosce un ruolo chiave ai Comuni, l’elemento pre-statale su cui poggia la coesione nazionale. E resta il buio sui costi di una riforma che ora, con i decreti attuativi, dovrà essere concretamente scritta.
I rischi di flop sono tanti perché sono tante le contraddizioni, soprattutto nel centrodestra. Il Governo predica il federalismo e razzola il centralismo, come raccontano le cronache di questi giorni. Berlusconi voleva azzerare per decreto le competenze regionali e comunali sull’edilizia e sulla casa, ma è stato -per ora- fermato. La sua visione è la solita: un rapporto diretto tra capo e popolo, fuori e contro ogni regola di concertazione istituzionale, di rispetto di una democrazia rappresentativa in teoria sempre più federalista.
Ancora: il Governo ha tolto l’Ici ai Comuni ma non l’ha restituita; ha ridotto i trasferimenti per le politiche sociali, quelle giovanili, il trasporto pubblico e l’edilizia scolastica; e non vuole modificare le regole del Patto di stabilità che impediscono ai Comuni di utilizzare le proprie risorse per far ripartire gli investimenti (che rappresentano il 60% degli investimenti del Paese). Tant’è che siamo alla rottura istituzionale: l’Anci ha deciso di appoggiare il comportamento di quei Comuni che non rispetteranno il Patto di stabilità nel 2009.
Come ha scritto Carlo Stagnaro sul Secolo XIX “il federalismo esige un certo livello di conflittualità e la sua essenza è la negoziazione continua”, perché presuppone “il ridimensionamento degli spazi di manovra di Roma”. Insomma, della governance multilivello non si può fare a meno: è ormai il modo normale di funzionamento per la formulazione e l’attuazione delle politiche pubbliche, che hanno bisogno dell’apporto di tutti i livelli di governo. Ciascuno ha le sue attribuzioni specifiche ma gli ambiti di interferenza sono numerosi e richiedono confronto e cooperazione. E’ un processo obbligato, e faticoso. Ma da un punto di vista democratico va detto che la democrazia è meglio garantita da una pluralità di centri di potere. Certo, serve il luogo della sintesi: ecco perché il federalismo fiscale ha bisogno del Senato federale, la sede istituzionale dove Stato, Regioni e Comuni possano mantenere nell’unità nazionale un processo che altrimenti rischierebbe la frammentazione.
Ma questi sono ragionamenti che sfuggono a Berlusconi. La sua è una visione che non ha nulla a che fare con il fascismo. E’ una forma di populismo e di plebiscitarismo, che rifugge dalle mediazioni istituzionali e che ha una presa in una democrazia debole come la nostra.
E che crea contraddizioni nel centrodestra, non solo con il federalismo leghista ma anche con la posizione più “istituzionale” e “democratica” che caratterizza il nuovo percorso di Fini. Ecco perché è presto per dire che il centrodestra governerà dieci anni, che con il Pdl è nato il nuovo grande partito dei moderati che l’Italia non aveva mai avuto, e così via. Per ora il Pdl è ancora un coacervo di federalisti e centralisti, di laici e clericali, di liberisti e statalisti. Mancano ancora, come ha notato Emanuele Macaluso sulla Stampa, un’identità e un progetto, analogamente al Pd: ma nel Pdl c’è la forza unificante del carisma del leader e il comune denominatore dato dall’avversione, assai diffusa, a come la sinistra ha governato e al suo profilo attuale. Senza aspettare il giorno del ritiro del Cavaliere la sinistra, allora, deve interrogarsi sul perché di questa avversione e costruire, dopo la sconfitta sia di Prodi che di Veltroni, una nuova identità e un nuovo progetto.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).
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