Il Secolo XIX – 28 luglio 2010 – Giulio Tremonti e Umberto Bossi, in difficoltà per l’opposizione di Regioni e Comuni a una manovra economica che li penalizza, hanno annunciato una accelerazione del federalismo fiscale: soprattutto il decreto per l’Imu, l’Imposta municipale unica, presentata come la panacea per i Comuni. In realtà, leggendo gli interventi di Tremonti in Parlamento e i primi atti promulgati, si dovrebbe piuttosto parlare di mera continuità con la restaurazione centralista di questi anni.
Si guardi all’Imu. Uno studio dell’associazione Trecentosessanta, che mette a confronto l’attuale gettito riconducibile alle imposte locali e ai trasferimenti statali ai Comuni (che scompariranno con la nuova imposta) con il futuro gettito dell’Imu, dimostra che i Comuni ci rimetteranno. Perderanno circa un quinto delle loro risorse, e saranno costretti ancor più a ridurre i servizi essenziali o a aumentare le tasse locali. Del resto grandi studi non servono: tolta l’Ici sulla prima casa, questa conclusione è inevitabile. Basta conoscere un minimo i Comuni. Ma chi ha mai governato una città tra i nostri governanti?
Il federalismo che hanno in testa Tremonti e la Lega rischia quindi di diventare la via per ridurre lo Stato sociale, che in Italia è basato sulla dimensione locale, o per trasformare sempre più i sindaci in nuovi esattori. Ma che federalismo è quello che alle autonomie non dà più poteri ma solo più tagli o più balzelli? Nei due anni di governo Pdl-Lega la spesa corrente centrale è aumentata di 51 miliardi, e con la manovra è stata solo sfiorata: si colpiscono soprattutto Regioni e Comuni. Ora si racconta la favola del federalismo, ma la formula è la stessa: “si spende al centro e si taglia o si tassa in periferia”.
La verità, offuscata dal clamore mediatico, è che il federalismo, quello vero, almeno per ora non si fa più, e che siamo in piena fase centralistica. Per due motivi. Il primo è la crisi economica e finanziaria. Tremonti e Bossi continuano nel ”mantra”: la riforma non produrrà nuovi costi, anzi farà risparmiare. Ma nessuno dei due si avventura a offrire un minimo di riscontro indicando numeri e stime. Le cifre sono ballerine, mai certificate da organi competenti. Le uniche certe sono quelle delle relazioni parlamentari: se sono esatte il loro peso, nelle condizioni attuali dell’economia, risulta insostenibile. Fatta la legge delega, quindi, non ci sono le risorse da mettere dentro i decreti delegati.
Il secondo motivo è che la riforma federalista è “di sistema” e implica una trasformazione costituzionale e un patto fondamentale tra le forze politiche. Invece si parla solo di federalismo fiscale. Ma la riforma delle relazioni finanziarie tra Stato e autonomie presuppone un assetto federalista delle istituzioni, e quindi una sede come il Senato delle Regioni e delle autonomie, che oggi è ben lontana. Ancora: la “Carta delle autonomie”, che assegna loro le funzioni fondamentali, è in discussione alla Camera (in un testo molto deludente), ma è separata dal federalismo fiscale. Come se non ci fossero effetti finanziari legati alle funzioni. Insomma, il federalismo fiscale manca di una cornice e di un’anima, di un “disegno” politico-culturale. E, in questa fase politica, non si vedono le condizioni di un “disegno”: non ci sono né le ambizioni né le capacità.
Il rischio è che si stia parlando di niente. Di una scatola vuota, costruita perché la Lega abbia la sua bandiera ideologica. Oppure, appena Tremonti e Bossi provano a riempirla, di una fregatura per le autonomie. Si cerca di far credere che si stia innescando un processo di radicale cambiamento dello Stato, in realtà siamo spettatori di un’operazione politica strumentale e di un gioco delle tre carte.
Viene così a compimento un processo politico cominciato 15 anni fa, che ha sempre più proceduto in una direzione contraria a ogni promozione di autonomia e sussidiarietà. Sono 15 anni che si discute di federalismo ma si pratica il centralismo: magari si attribuisce qualche competenza, ma mai le risorse necessarie. E spesso mantenendo la stessa competenza a un ente “concorrente”. E oggi si “ricentralizza” ancor di più, perché il Governo ha le casse vuote e perché il Governo naviga a vista.
Ecco perché la Lega, oltre a recitare il “mantra”, promuove continui conflitti simbolici: sul tricolore, l’unità d’Italia, l’inno. Vuole tener viva l’attenzione sulla sua identità e far dimenticare l’assenza di risultati concreti. Ma la contraddizione aumenta ogni giorno. Gli elettori della Lega continueranno a esprimere consenso a un partito “di lotta” che è pure “di governo”, e guida due Regioni, 14 Province e 350 Comuni? Si accontenteranno del federalismo come “sol dell’avvenire”, contraddetto dai fatti? O la loro pazienza non sarà infinita?
E l’opposizione? Sulla legge delega il Pd si astenne, l’Idv votò a favore. Sicuramente è il caso di non dare altre aperture di credito e di avanzare proposte serie che colmino il vuoto. Sta all’opposizione dimostrare quelle ambizioni che la maggioranza non ha, e sfidarla sul terreno del federalismo autentico, non quello delle chiacchiere.
Giorgio Pagano
L’autore si occupa di cooperazione in Palestina e in Africa; è segretario generale della Rete delle città strategiche e presidente dell’Associazione Culturale Mediterraneo
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