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Equa globalizzazione, la sfida della sinistra

a cura di in data 10 Aprile 2009 – 10:35

Il  Secolo XIX – 10 aprile 2009 – Dieci anni fa, 1999: la new economy stava celebrando i suoi fasti e il mondo, caduti tutti i muri ideologici, politici, economici avrebbe offerto -affermavano i cantori della globalizzazione neoliberista- pari opportunità a tutti. Proprio in quell’anno esplose, per le vie di Seattle, il fenomeno no global. Il 30 novembre 1999 100.000 manifestanti sfilarono contro l’assemblea degli Stati del Wto, l’organizzazione del commercio mondiale. Il vertice fu un fallimento: cominciarono allora sia il tramonto dell’egemonia dell’Occidente sull’economia globale che la crisi del pensiero unico, della profezia di Francis Fukuyama sulla “fine della storia” con il crollo del Muro di Berlino. Fu, il movimento di Seattle, che poi si spinse a Sud dando vita al Social Forum di Porto Alegre, il segno di un disagio premonitore? Certamente sì: denunciava problemi veri e drammi seri, le crescenti  disuguaglianze sociali e la crisi climatica in primis, anche se la proposta alternativa non era convincente. Ha saputo mantenere in questo decennio un senso comune critico della globalizzazione, ed oggi i fatti gli danno ragione: il mondo è molto meno piatto, e ancora meno lo sarà in futuro, rispetto alle previsioni del libro di Thomas Friedman.
L’erede del “popolo di Seattle” è lo spettro che in questi giorni si aggira in tante piazze del mondo: rivolta rabbiosa contro i manager e le classi dirigenti responsabili della deregulation ma anche movimento di lavoratori disoccupati e precari e di quel “ceto medio globale” che si è arricchito in questi anni  e ora viene ricacciato indietro. La Grande crisi porta per strada la frattura sociale tra ricchi e poveri, tra classi dirigenti separate e lontane e il mondo del lavoro. Ritorna, con molte speranze in meno rispetto a dieci anni fa (“Un altro mondo è possibile” era la cifra di Porto Alegre) e quindi con più rischi per la legittimità della democrazia, il conflitto sociale. Sono gli esclusi, le persone per cui è tornata centrale, come ha scritto Enzo Mauro, “la grande questione novecentesca del lavoro”, perché lo hanno perso o temono di perderlo, o non lo trovano. Ciò che li accomuna è l’aspirazione all’eguaglianza, contro l’idea dominante di questi decenni, quella secondo cui il benessere di pochi avrebbe comunque comportato vantaggi per tutti.
Questa rabbia avrà effetti duraturi? E come evolverà: verso il ribellismo populista o verso una proposta alternativa convincente? Dipenderà soprattutto dalla capacità di ripensamento delle forze di sinistra. Vuol dire riusare parole considerate in questi anni superate come se fossero antiche, in un furore iconoclasta contro “le culture del ‘900”: lavoro, eguaglianza, giustizia sociale, sinistra. So bene che queste parole non bastano, che vanno rivisitate e compenetrate con parole nuove: ma è da esse che bisogna partire, se si vuole superare il riformismo debole di questi anni e costruire un  pensiero democratico del futuro che sia di popolo e non senza popolo. Vuol dire comprendere il colossale errore commesso di subalternità al neoliberismo e ricordarsi di ciò che per la sinistra è un obbligo: la redistribuzione del reddito, senza  cui non ci sarà nemmeno la creazione di una nuova crescita economica. Vuol dire non limitare l’orizzonte alla “società degli individui”, post-industriale, e riprendere la questione del lavoro, che va aggiornata ma non, come in questi anni, abbandonata.
La politica torna  a dividersi su ciò che, come diceva Bobbio, dividerà sempre la destra e la sinistra: il valore dell’eguaglianza. La sinistra, travolta in questi anni perché è andata troppo verso la cultura liberale, ha dalla sua questo valore per rigenerarsi. L’aspetta un enorme lavoro di costruzione di un nuovo patrimonio di idee, contro il pragmatismo e quella “veduta corta” denunciata da Tommaso Padoa Schioppa nel suo ultimo libro. Un’ideologia -un’altra parola di cui non dobbiamo avere paura- che salvi il  patto sociale del Novecento portandolo nel mondo nuovo che sorgerà dopo la crisi. E che recuperi, della visione liberale, il principio della libera realizzazione della persona ma lo faccia convivere con la critica dell’individualismo privatistico basato sul profitto e con il senso della responsabilità pubblica nell’economia.
Se la sinistra si ripenserà così e si batterà per evitare che le diseguaglianze crescano ancora,  l’esito della rivolta non sarà il conflitto sregolato. E l’esito della crisi non sarà la deglobalizzazione, cioè la regressione protezionista e nazionalista, ma una nuova globalizzazione, più giusta e democratica.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche)

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