Cipputi non è morto, ma va restituita dignità al lavoro in fabbrica e la sfida tocca ai sindacati
Il Secolo XIX 12 maggio 2009
Di fronte alla Grande crisi si sta facendo strada l’idea che “il futuro ha un cuore antico”, per dirla con Carlo Levi: cioè che il cardine della ripresa italiana, la carta migliore contro il rischio di declino siano le imprese industriali. Lo dimostra l’accordo Fiat – Chrysler, che riporta la nostra industria a una presenza di alto profilo nel mondo. L’Italia, pur con tutti i suoi ritardi, ha ancora delle eccellenze: alcune grandi imprese come la Fiat e le 4600 imprese medie e medio-grandi che costituiscono il cuore del sistema produttivo e fanno da motore di un tessuto diffuso, composto da centinaia di migliaia di piccole imprese.
Finora, sostiene Romano Prodi, il processo di deindustrializzazione e di terziarizzazione è stato interpretato come un passaggio naturale, misura e segnale del progresso di un Paese. “Tuttavia -rileva- se è valida l’affermazione che non vi è un’industria efficiente se non è supportata da un moderno settore terziario, è altrettanto valida l’affermazione opposta che, almeno in un grande Paese, non vi può essere nel lungo periodo un terziario prospero se non è sorretto e affiancato da una forte industria manifatturiera”. Mettendo a confronto le economie di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Germania e Italia, Prodi sostiene che una presenza più diffusa dell’industria garantisce una maggiore produttività e una bilancia commerciale più favorevole. E che aver conservato un apparato industriale di dimensioni ancora notevoli ha fatto mantenere un elevato livello di competitività alla Germania, ma anche all’Italia, nonostante le sue tante debolezze e la sostanziale assenza di imprese industriali nel Sud. Insomma, afferma l’ex Presidente del Consiglio, “l’industria sarà sempre di più il pilastro della nostra economia”.
Sulla stessa lunghezza d’onda c’è il Censis, che nel suo “Rapporto 2008 sulla condizione sociale del Paese” individua tra i primati del nostro modello di sviluppo il primato dell’economia reale su quella finanziaria e quello “dell’industria manifatturiera e della sua modernità in termini di innovazione di prodotto e di processo”. Mentre la Fondazione Edison ci ricorda che siamo ancora un Paese capace di produrre ricchezza, battendo i concorrenti sui mercati esteri grazie alla qualità dei prodotti: continuiamo a generare il “surplus manifatturiero”, cioè la differenza positiva tra esportazioni e importazioni di prodotti finiti.
E’ questa anche la tesi di “Orgoglio industriale”, un bel libro di Antonio Calabrò, giornalista e economista, che ci racconta, in un viaggio alla scoperta della parte più vitale della nostra manifattura, come l’Italia rimanga un grande Paese industriale, il secondo d’Europa. E’ un viaggio nel passato, che ha una prospettiva storica, e insieme nel presente e nel futuro di una fabbrica che sta cambiando e somiglia sempre più a “un’officina-laboratorio-centro di ricerca-ufficio di marketing e logistica”. Nel libro-inchiesta ci sono i personaggi, le storie, i fatti, i dati riguardanti le nostre 4600 medie imprese, il cui peso rappresenta il 40% del valore aggiunto della manifattura italiana. Sono ricche, solide e con una marcata propensione internazionale, una capacità di conquistare nicchie produttive di eccellenza a livello globale: 1600 vendono più all’estero che in Italia e 2150 sono comunque qualificabili come “grandi esportatori” (il fatturato estero supera il 40% del totale).
Sono imprese attrezzate a superare anche questa recessione, ci spiega Calabrò, perché investono in innovazione e qualità, portando nel futuro il patrimonio del passato: con nuovi prodotti personalizzati, ma soprattutto con nuovi modi di produrre e di servire il mercato. Tra i protagonisti del libro c’è preoccupazione ma non disperazione: sanno che vivrà chi in questi anni ha investito in innovazione e qualità, le imprese attente ai continui cambiamenti del mercato, finanziariamente solide e, soprattutto, internazionali. Imprese che fanno ricerca e hanno un’attitudine consolidata a interagire con le università, i politecnici, l’istruzione tecnica.
Aggiungo: i successi delle imprese devono essere sostenuti dal sistema Paese, a differenza di quanto avvenuto finora, e supportati da politiche pubbliche di sostegno all’industria. La Grande crisi ha ulteriormente accentuato il valore strategico di queste politiche, superando di fatto il blocco ideologico che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Le risorse pubbliche vanno indirizzate in primo luogo verso la ricerca e l’innovazione tecnologica e guidate da una chiara individuazione circa le principali direttrici di sviluppo, come sta facendo Obama.
Un capitolo del libro è dedicato alla green economy, una direzione che, sostiene Calabrò citando appunto Obama, condizionerà tutto il nostro futuro: risparmio energetico, energie rinnovabili, eco-case, mobilità sostenibile. Manca un approfondimento su un altro settore del futuro: le scienze della vita, cioè la farmaceutica, gli strumenti medicali, le biotecnologie. Sono due campi in cui in Liguria stanno crescendo imprese dinamiche. La nostra regione è poco studiata da Calabrò, ma avrebbe qualcosa da raccontare: dal Parco scientifico e tecnologico che sta sorgendo agli Erzelli all’Istituto italiano della tecnologia, dalle imprese del Club Dixet al Distretto ligure delle tecnologie marine, appena nato alla Spezia. Insomma, siamo pronti anche noi al salto verso l’innovazione e la qualità.
Uno spunto interessante del libro, infine, riguarda il rapporto, nei territori di questa manifattura, tra dinamismo imprenditoriale, buon livello dei redditi e della qualità della vita e “consapevolezza dell’essere un protagonista sociale attivo, un cittadino”. C’è, nella nostra storia e nel nostro futuro, una “anima meccanica”, che dà senso al lavorare e all’essere comunità insieme industriosa e solidale, che genera capitale sociale e appartenenza collettiva.
L’analisi di Calabrò è condivisibile. Ma, come rivela un’indagine Ipsos condotta proprio per questo libro, gli italiani non la conoscono e non la condividono. Amano poco sentir parlare di fabbrica, meccanica, tute blu, fatica. La percezione del lavoro industriale è negativa. Fino all’estremo dei giovani: “meglio lavorare in un call center che in fabbrica”, perché il lavoro operaio è l’ultimo gradino della scala sociale. Il protagonismo operaio degli anni ’70 non ha trasmesso memoria alle nuove generazioni. E c’è distonia tra realtà e percezione: per la maggioranza degli intervistati la manifattura ha perso rilevanza, e il dato che siamo il secondo Paese industriale in Europa stupisce quasi tutti. E’ la “centralità marginale” dell’industria di cui parla il sociologo Daniele Marini.
Come dare, allora, nuovo appeal alla fabbrica? Calabrò conclude scrivendo della necessità di fatti, scelte, assunzioni di responsabilità su qualità del lavoro, ambiente, sicurezza, percorsi professionali, partecipazione. Lo dico con più nettezza: l’Italia deve mettere al centro il grande tema del valore del lavoro, dell’urgenza di restituire al lavoro, a partire da quello industriale, dignità, riconoscimento sociale, tutela giuridica e contrattuale, retribuzione adeguata, valorizzazione professionale.
A tal fine è indispensabile una rivitalizzazione dei sindacati, che non sono quell’arnese inservibile di cui ha parlato in questi anni la dottrina dominante. Senza sindacati forti e rappresentativi il lavoro continuerà a perdere valore. Ma i sindacati devono rinnovarsi e unificarsi: risalire la china dove hanno perduto terreno, cioè sia nella contrattazione sui luoghi di lavoro sia nell’interpretazione degli interessi generali, come vuole la tradizione confederale italiana. I dirigenti sindacali devono essere capaci di fare, nei tempi nuovi, ciò che fecero i loro predecessori negli anni ’60 e ’70 e anche in seguito, dopo la divisione provocata dal decreto sulla scala mobile. E’ una sfida che non può non coinvolgere, nel rispetto della reciproca autonomia, quelle forze riformiste che continuano a credere che, per loro, come diceva Vittorio Foa, “il punto di partenza è il lavoro umano”.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).
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