Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Cercasi socialdemocrazia in salsa liberale

a cura di in data 22 Luglio 2009 – 09:26

Il  Secolo  XIX  22 luglio 2009 – Le elezioni europee hanno espresso il primo grande voto dopo il crollo economico-finanziario d’autunno. La destra, al governo o all’opposizione, è uscita vincente, nonostante rappresentasse il neoliberismo, cioè l’ideologia della sregolatezza responsabile del marasma. La sinistra socialdemocratica, e in Italia il Pd, sono usciti invece sconfitti. Come è potuto accadere? Una prima risposta è che la destra neoliberista è diventata keynesiana e ha fatto dimenticare il suo passato facendo proprie le ricette della socialdemocrazia e lasciandola così a mani vuote. E’ una verità, anche se parziale: la destra non è diventata keynesiana, pretende solo che sia lo Stato a pagare i conti della crisi per poi ritirarsi dalla scena. E’ una destra pragmatica e spregiudicata, che non ha esitato a scoprire l’anti-mercatismo pur di traversare il torrente in piena, salvo tornare appena possibile allo status quo ante.
La seconda risposta guarda all’incapacità della socialdemocrazia di proporsi come un’alternativa credibile. Il suo silenzio politico e culturale di fronte al crollo dell’autunno del 2008 è stato assordante. E’ quindi comprensibile che si possa parlare, come fa lo storico Giuseppe Berta, di “Eclisse della socialdemocrazia” (questo il titolo del suo saggio). L’analisi di Berta è condivisibile: la socialdemocrazia, in tutti questi anni, non è stata affatto antagonista del neoliberismo, ne ha solo praticato una versione debole. L’autore analizza in particolare New Labour e Spd e così conclude: “nell’epoca della globalizzazione  la socialdemocrazia al governo ha aderito quasi plasticamente ai caratteri del capitalismo contemporaneo, abbandonando la pretesa di trasformarli”. La questione consiste nell’adattare la società al sistema economico, giudicato immodificabile. Non rimane altro da fare che puntare tutto sullo sviluppo della conoscenza, la sola via  per vincere l’insicurezza e la precarietà dei lavoratori. Ma in realtà, nota Berta, “le distanze tra i gruppi avvantaggiati e svantaggiati della società non si sono affatto accorciate”, anzi. Così come sono aumentate negli Stati Uniti durante la presidenza di Bill Clinton. Senza ricercare le condizioni dell’eguaglianza, ha riconosciuto lo stesso Anthony Giddens, il teorico della “terza via” blairista, una politica di sinistra non può reggere.
C’è poi un’altra causa di fondo della crisi della socialdemocrazia, su cui Berta non si sofferma: alla globalizzazione essa non ha contrapposto quel rafforzamento del potere politico internazionale che avrebbe potuto nascere da una più forte integrazione europea. Lo ha detto bene Daniel Cohn-Bendit, il leader vittorioso dei Verdi francesi, cioè di un partito sovranazionale: “Una forza politica moderna deve avere oggi dimensioni europee. E la crisi della socialdemocrazia la si risolverà solo formulando, contro le alternative nazionali, alternative europee.”
Riguardo alle soluzioni, per Berta è utile ripercorrere la” Teoria generale” di John Maynard Keynes: “con uno sguardo vergine, ci si accorge che la sua eredità è tutt’altro che estinta o muta dinanzi alle trasformazioni contemporanee”. L’ipotesi è “coniugare lo spirito di libertà con una rinnovata  spinta a comprimere il ventaglio delle disuguaglianze sociali”: non si può “tornare indietro alla socialdemocrazia di un tempo”, ma nemmeno “far cadere le istanze redistributrici e di giustizia sociale” e “trascurare ogni intervento di correzione al mondo globalizzato”, come vuole quella cultura blairista secondo cui “è meglio che la politica si arrenda o addirittura si consegni all’economia e alla sua forza di cambiamento”.  Insomma, è venuta l’ora di un nuovo “liberalismo sociale”.
Analisi e tesi in parte simili si ritrovano nel saggio dell’economista Salvatore Biasco “Per una sinistra pensante”, che si sofferma sul Pd. Il nuovo partito, scrive, “tende a collocarsi in un versante liberale”, come dimostra l’esordio di Walter Veltroni al Lingotto; e “vagamente liberale è quel poco che si può discernere dallo scarso alimento di idee in un’azione quotidiana poco lineare”. Ma ciò è avvenuto ”in controtendenza con una domanda diffusa che, ben prima della crisi finanziaria e economica,  si rivolgeva verso lo Stato chiedendo protezione  e governo”, che la destra ha capito più lestamente della sinistra. Questa negli ultimi vent’anni “ha fatto un lungo cammino  nell’assorbire i principi della nuova economia di mercato, il che non sarebbe stato negativo se le dosi non fossero state tali da snaturarne l’identità e offuscarne l’autonomia”. E’ utile, sostiene Biasco, scorporare dalla cultura liberale il paradigma culturale individualistico e tornare alla visione solidaristica, comunitaria, cooperativa della società, che è stata tradizionalmente propria della sinistra: perché “la società  rimane non riducibile agli individui che la costituiscono, soprattutto in un mondo che richiede uno Stato attivo e capace di scelte affidate a un criterio di bene pubblico, che trascende i singoli”. La dottrina liberale va assunta “dentro una cultura politica che deve rimanere di tipo socialdemocratico più che viceversa”. Quest’ultima “non può avere i cardini classisti tradizionali”, ma non deve rinunciare alla “convinzione che la tenuta del tessuto sociale non può essere affidata al mercato, bensì alla capacità della politica di elaborare l’economia e la società”. La proposta è quindi quella di una socialdemocrazia rinnovata, che distingue le molte soluzioni liberali condivisibili dalla cultura liberale come orizzonte di riferimento.
Come ha scritto Massimo L. Salvadori, il 1989 ha segnato l’inizio del post-comunismo, mentre il tempo presente indica che siamo anche al post-socialismo otto-novecentesco. Ma “il mondo delle disuguaglianze è più che mai vivo, e perciò resta da sciogliere il nodo se un socialismo rinnovato sia in grado di restare un soggetto capace di condurre in prima persona la lotta ideale  e pratica contro di esse oppure se invece il post-socialismo otto-novecentesco significhi post-socialismo senza aggettivi”. L’importante, ora, è la riflessione di merito: quali regole (mondiali) per impedire un ritorno al turbocapitalismo, come ricostruire una rete di protezione sociale per i più deboli, come ristrutturare il welfare, quale rilancio del ruolo dei sindacati. Come debba chiamarsi tutto questo, se socialdemocrazia o no, si vedrà alla fine.
Sicuramente il congresso del Pd dovrebbe mettere al centro questi temi: non c’è egemonia politica senza egemonia culturale. Senza cultura politica e identità un partito resta in preda a un eclettismo di suggestioni e a un pragmatismo oscillante e incerto, incapace di proporre un progetto coerente di cambiamento del Paese.

Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).

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