Carta d’identità cercasi per partito democratico
Il Secolo XIX – 12 agosto 2009 – L’Italia è cresciuta in passato, per quanto riguarda l’organizzazione della politica, grazie a partiti che avevano ideologie unificanti e classi dirigenti espressione dei territori. Questo passato non è riproponibile: ma resta l’esigenza che i partiti abbiano culture e sistemi ideali che diano loro identità e che li rendano così ben distinti tra loro e ben riconoscibili, e quella che i partiti abbiano radici consolidate nei territori. Il congresso del Pd deve quindi darsi un fondamento culturale e ideale e decidere che partito vuole essere, se “leggero” o radicato nel Paese reale.
Su questo secondo punto la scelta di Walter Veltroni al Lingotto fu chiara: partito “presidenziale” e a democrazia diretta, leggero e senza radici. Una scelta frutto di una cultura che a poco a poco si era fatta strada sia nei Ds che nella Margherita. Sono stato assessore dal 1993 (l’anno dei primi sindaci eletti direttamente) al 1997 e poi sindaco fino al 2007, e quindi testimone di due fasi: quella in cui il centrosinistra era ripartito dal basso e si era consolidato sul territorio, poi quella della perdita di queste radici. “Alla ricerca delle radici perdute” si intitola non a caso il saggio del politologo Mauro Calise. “Il terremoto del Pd viene da lontano -scrive- e riguarda il rapporto fondativo di ogni partito politico: il rapporto tra centro e periferia. Il centrosinistra aveva la sua forza nelle radici territoriali, quando ha accettato di reciderle si è condannato alla sconfitta.”
La forza del centrosinistra stava nei territori. Non solo negli amministratori locali eletti direttamente, ma anche nei parlamentari eletti nei collegi uninominali: una nuova classe dirigente locale la cui linfa era l’interlocuzione diretta con il territorio. Ci sono stati, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, sindaci e parlamentari buoni e cattivi: le esperienze non furono omogenee, ma non c’è dubbio che una classe dirigente dotata di un forte consenso popolare fu nel complesso in grado di restituire consenso sociale alle istituzioni e alla politica e autonomia alle realtà locali. Il suo rapporto con i vertici romani, però, fu sempre debole, fino ad incrinarsi del tutto. I vecchi partiti erano stati profondamente rinnovati, dopo Tangentopoli, in periferia. Non altrettanto successe a Roma. Qui rimasero i gruppi dirigenti superstiti, in gran parte provenienti dalla Fgci e dal Movimento Giovanile Dc degli anni ’70, impegnati a sperimentare nuovi contenitori e nuovi nomi e a bloccare ogni ricambio che attingesse energie dai territori. Un mix micidiale di rigurgito centralista e di separatismo, che ebbe una debole opposizione del centrosinistra, inferse colpi duri alle città, ai territori, alle politiche di sviluppo locale. Il culmine della spaccatura fu il “Porcellum”, varato dal centrodestra anche in questo caso senza una vera opposizione. Non lo si confessava, ma andava bene a tutti: gli eletti dell’uninominale territoriale e di coalizione venivano sostituiti con gli eletti dalle segreterie di partito, cioè dai capi partito sopravvissuti alla crisi dei partiti. Le radici territoriali del centrosinistra non sono state trasformate, per dirla con Calise, “nel laboratorio e nella fucina del nuovo Pd”, e ciò che “poteva essere il grimaldello con cui mettere in crisi il centralismo mediatico di Berlusconi è diventato invece il fronte su cui il Pd oggi rischia il naufragio”.
L’eclettismo invece che un’ideologia coerente, il “correre da soli” in un bipartitismo solo evocato invece che una strategia delle alleanze bipolari, il nuovismo leaderistico invece che il radicamento nei territori: sono tutte facce della stessa medaglia, quella del Pd veltroniano (senza oppositori interni, o quasi).
Eppure l’idea del partito maggioritario è giusta. Il punto vero e dolente, spiega un altro politologo, Oreste Massari, nel saggio “Un partito moderno: liquido o strutturato?”, è “di quali partiti maggioritari abbiamo bisogno”. In Europa e negli stessi Stati Uniti questi partiti, pur con tutti i loro limiti e debolezze, “continuano ad essere realtà fortemente strutturate o in cerca di strutturazione forte, e collegiali, in cui gli organismi della democrazia rappresentativa interna contano”. C’è certamente una centralità del leader, che però non è onnipotente. Sono grandi contenitori, ma con un’identità forte. Fanno comunicazione, ma hanno alle spalle strutture che elaborano e discutono a lungo le proposte. Hanno reti telematiche, ma anche i volontari sul territorio. Usano le primarie, ma coniugate con la democrazia interna di partito.
Sono partiti, per dirla con lo storico Massimo L. Salvadori, né “troppo chiusi”, né “troppo aperti”, “né al tempo stesso l’una e l’altra cosa “. Quest’ultimo è proprio il caso del Pd: nacque con un atto di chiusura oligarchica delle classi dirigenti, nazionali e locali, dei due partiti fondatori. Proprio per questo fummo in molti a credere nell’apertura, cioè nelle primarie. Ma esse sono diventate in molti casi una forma di mobilitazione plebiscitaria a sostegno di candidati già decisi dalle oligarchie, mentre in altri casi, mancando l’albo degli elettori, sono state forme di mobilitazione così indistinta tra cittadini da far dubitare che l’elettorato di centrodestra sia stato decisivo, in alcune città, nella scelta dei candidati sindaci.
Insomma: che forma partito vuole avere il Pd? E’ davvero uno dei chiarimenti di fondo che sta davanti al congresso.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).
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