Tangentopoli e l’onore perduto della politica
Il Secolo XIX , 25 maggio 2014 – Le tangenti sul grande affare dell’Expò e il sostegno politico a proteggere un latitante colluso con le ‘ndrine, che vedono protagonisti due liguri potentissimi, colpiscono ma non meravigliano. Certo, fino ai processi vale la presunzione di innocenza. Ma il problema c’è: abbiamo da decenni una corruzione che costa ai cittadini oltre 60 miliardi di euro all’anno. Parallelamente i costi della politica sono aumentati in modo esponenziale: le campagne elettorali politiche e regionali del 2008 e 2010 sono costate dieci volte di più di quelle del 1996 e 2000. E’ facile pensare che tra i due fenomeni ci sia un nesso. Di fronte a quello che sta accadendo, la politica dovrebbe imprimere una svolta radicale. Ma ne è in grado?
Siamo dentro una nuova Tangentopoli, e forse è ancora peggio. Qualcuno ha sostenuto che il sistema ora appare più “personale”, con i partiti sullo sfondo. E’ vero, siamo di fronte all’arrembaggio di persone e clan che vogliono arricchirsi a tutti i costi, non c’è più il finanziamento dei partiti con le percentuali tangentizie, come vent’anni fa. Ma i faccendieri non sono del tutto “agenti in proprio”. Manca il legame con i partiti di una volta perché quei partiti non ci sono più o sono in crisi profonda: la nuova Tangentopoli è figlia di una stagione in cui la crisi dei partiti ha portato al loro sfrangiamento in potentati, fazioni e gruppi. E i faccendieri si annidano in questi mondi frastagliati, dove pezzi di politica si uniscono con pezzi di imprenditoria e di burocrazia. La classe dirigente si è ridotta ormai a questi “giri” chiusi di auto garanzia e di cooptazione, in un contesto in cui le regole della vita comune sono sempre più inosservate.
Servirebbero partiti veri, autonomi, liberi davanti al mercato, con un progetto di società, un radicamento popolare, una vita democratica: costituirebbero l’antidoto più forte alla corruzione. Purtroppo, anche dalla Liguria, vengono segnali opposti: quando un leader di primo piano del centrodestra, crollato l’impero Carige dove aveva un ruolo chiave, diventa improvvisamente “renziano” vuol dire che il rischio è ormai la riduzione della politica a mera amministrazione da parte di un “grande centro” nel quale, escluso ogni confronto tra interessi sociali confliggenti e tra progetti alternativi di società, ci si distingue soltanto in base a prossimità personali e ad appartenenze a clan che hanno però un’omogeneità di fondo. E’ chiaro che l’astensionismo e il “populismo” sono la diretta conseguenza di tutto ciò. Io non voto M5S perché non vedo possibile una democrazia senza partiti, perché non credo che tutto, proprio tutto, sia sporco, e perché credo che la verità emerga dalla creatività del dubbio e non sia una sentenza. Ma c’è una spinta, soprattutto giovanile, che ora è catalizzata dal M5S. Per incontrarla la politica deve riproporre alternative nitide. E la sinistra deve ridarsi, al posto del “riformismo senza riforme”, un progetto di cambiamento della società, che combatta il “privatismo individualistico” egemone in questi anni, che è stato ed è il brodo di cultura di Tangentopoli. E deve trovare rimedio alla corruzione agendo, con misure e regole esemplari, sia sulla repressione senza tregua che sulla democrazia e sulla trasparenza. Senza un grande scatto per riconquistare dignità e onore questa politica è perduta.
Giorgio Pagano
Presidente dell’Associazione Culturale Mediterraneo
Popularity: 3%