Profughi e accoglienza, il caso Cinque Terre
Il Secolo XIX, 22 luglio 2017 – Di fronte a ogni situazione di presunta emergenza, il primo dovere è non spaventarsi. Secondo l’Istat nel 2016 in Italia sono morte 608.000 persone e sono nati 474.000 bambini. Nel 2015 sono morti 648.000 residenti e i neonati sono stati 486.000. Il saldo naturale registra un valore negativo di meno 134.000 abitanti nel 2016 e di meno 162.000 nel 2015, per un totale nei due anni di meno 296.000 persone. Se affianchiamo questi dati al numero di stranieri sbarcati nel 2016 (181.000) e nel 2015 (153.000), per un totale di 334.000 persone, ci accorgiamo che il fenomeno migratorio ha portato in Italia 38.000 nuovi residenti (se resteranno in Italia), 19.000 l’anno, lo 0,003% della popolazione nazionale. Ma, con questi dati, di quale “invasione” si parla?
Dobbiamo quindi garantire il diritto di migrare. Sapendo che è impossibile distinguere tra i profughi politici e quelli economici e ambientali: come ha detto Monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, “è come fare la distinzione se uno preferisce morire impiccato o alla sedia elettrica”. Serve un’operazione umanitaria multinazionale sotto il controllo dell’Italia, una missione Mare Nostrum finanziata dalla Commissione europea. E poi occorre la riforma della legislazione europea, a partire dal regolamento di Dublino che obbliga i migranti a fermarsi nello Stato di primo approdo.
L’altra questione è: rendere i nuovi arrivati persone attive, formarli e inserirli nella società, insieme ai nostri giovani. Lo si è cominciato a fare nel Parco delle Cinque Terre. La Germania lo sta facendo molto seriamente, noi no.
Ma occorre garantire anche il diritto di restare, agendo sulle cause che costringono a migrare. Non contrapponiamo, però, “casa” a “casa”. Non ci potranno più essere “case” nostre e loro, recintate ed esclusive, ma solamente un’unica “casa” comune. Nella quale gli africani verranno in Europa, e noi andremo in Africa, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri.
La cooperazione con l’Africa deve aumentare le risorse: l’Italia, con lo 0,16%, è ultima in Europa. Stiamo sbagliando tutto: dal mercato italiano delle armi (“aiutiamoli a spararsi a casa loro”) fino alla politica energetica che produce il riscaldamento climatico innanzitutto a “casa” loro. La cooperazione deve basarsi su partnership fondate su parità e reciprocità, smetterla di depredare le risorse africane e non trasformarsi in aiuti ai regimi perché rinchiudano in campi di concentramento chi è costretto a fuggire. Servono aiuti, sostegno vero e riparazioni alle malefatte della nostra economia di rapina. Il Governo dice: aiutiamo il Niger. Ma guardiamo a come le multinazionali occidentali del petrolio hanno ridotto il Delta del Niger: un pantano immenso di bitume e scarti del grezzo di prima estrazione che ha compromesso le falde acquifere costringendo alla fuga migliaia di contadini. Mentre la Francia tuttora estrae, in questa sua ex colonia, pagando compensi irrisori, l’uranio che alimenta un terzo della potenza energetica francese. Noi oggi dobbiamo offrire al Niger la sicurezza economica, l’unica che può contrastare l’emigrazione, non un altro scambio ineguale.
Giorgio Pagano
Cooperante, già Sindaco della Spezia
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