Primo Maggio, giusto tenere chiusi i negozi
Il Secolo XIX – 5 maggio 2011 – Premessa: so bene che cos’è una città, e quindi so che i negozi non servono soltanto a far cassa, ma sono parti vitali di una città, attorno alle quali brulica la vita sociale. Ho cercato di lavorare per un centro città con tante aree pedonali, piazze, luoghi della cultura, e un’area commerciale con orari di apertura ampi e flessibili, concordati con i sindacati, per venire incontro sia ai turisti che ai cittadini.
Detto questo, non sono d’accordo con l’apertura dei negozi il primo maggio, ipotesi di cui si sta discutendo anche nella nostra provincia: l’assessore al commercio del Comune di Sarzana ha detto che, in vista del 2011, “bisogna fare una riflessione”.
Giusto discutere, ma non si dimentichi che il primo maggio nasce come giornata di lotta e di festa, prima per conquistare le otto ore di lavoro, poi per sancire la conquista e ricordarla. Oggi le condizioni di vita e di lavoro sono diverse, ma resta su di esse un dominio duro. Il ventennio alle nostre spalle è stato segnato dall’egemonia del neoliberismo, che ha portato con sé l’impoverimento del lavoro e una progressiva riduzione dei diritti. Il lavoro è stato nuovamente ridotto a merce, perché in questo processo è stata in parte smantellata l’opera di demercificazione del lavoro compiuta in un secolo di storia europea. Si pensi, per fare un esempio, alla rottura del “tabù” delle otto ore rappresentato dall’accordo di Mirafiori, che prevede turni lavorativi di dieci ore (su quattro giorni a settimana anziché cinque).
Insomma: il primo maggio si facciano funzionare i servizi essenziali, ma poi ci si ricordi sempre che la valenza simbolica della festa ha ancora un senso profondo, ed è bene non sia mai messa in discussione. Dietro la polemica sui negozi c’è la tesi che il primo maggio sia un rito ormai inutile, da superare in nome della religione del mercato e del consumo. Ma i simboli e i valori hanno una grande importanza: senza di essi non c’è memoria, identità, ricordo e riproposizione del senso della comunità e del patto di unità tra chi lavora. Si punta, invece, a trasformare i lavoratori in consumatori. Persone così “svalorizzate”, osserva tra l’altro il sociologo Luciano Gallino, non sarebbero in grado di dare un contributo alla salvezza del pianeta, l’altro grande tema, insieme al lavoro, dei nostri tempi (si pensi alla distruzione di qualunque tipo di ecosistema).
A proposito di ambiente, mi ha sorpreso che il Comune di Rocchetta Vara abbia proposto un progetto educativo incentrato sulla caccia. La scuola ha detto no, giudicandolo “non compatibile con la didattica ambientale”, e i bambini non andranno nel recinto dei cinghiali. Ora il sindaco auspica “un sereno dibattito”. Giusto, ma mostrare un animale inseguito come preda non mi sembra indicato per i bambini.
I due casi fanno pensare: amministratori del Pd hanno presentato proposte più in sintonia con la cultura del centrodestra che con quella di tanti iscritti e elettori del centrosinistra. Sono piccoli segnali di un partito con un’identità incerta, attraversato da tante contraddizioni. Ha ragione Emanuele Macaluso nel suo primo editoriale da direttore del Riformista: va costruito ”un grande partito della sinistra”, che metta al centro il lavoro e l’ambiente e sia concepito come alternativa credibile.
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