La grande lezione di David Grossman
Il Secolo XIX 25 ottobre 2009 – Il premio Exodus 2009, assegnato allo scrittore israeliano David Grossman per il suo impegno per “la speranza e il dialogo”, è davvero meritato. Sabato scorso non ero al Civico, ma ho letto le interviste di Grossman: sono, come sempre, una testimonianza molto bella sul valore della letteratura e, insieme, una amara riflessione sulla tragedia di due popoli in guerra e sulle possibili vie della pace.
L’impronta è pessimista: “la situazione pare disperata perché le due parti sembrano prigioniere della loro storia”. La critica dello scrittore a Israele per l’azione militare a Gaza del dicembre scorso era stata durissima. La definì “una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina”. E la denuncia delle responsabilità di Hamas non gli impedì di dire che “nel comportamento di Israele c’è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che ci consuma”.
Una lettura drammatica che lo porta a scrivere che “questa regione conoscerà la pace solo se ci verrà imposta”, e a ritenere indispensabile un fermo intervento internazionale guidato da Obama, il Presidente che “ha aperto il cuore alle difficoltà, ai timori e alle aspirazioni di ambo le parti, israeliani e palestinesi”.
Forse Grossman è nel vero quando dice che “con le nostre sole forze, ormai, non potremo più farcela”. Ma egli, nel contempo, non perde occasioni per ricordare che “israeliani e palestinesi sono popoli molto simili, molto più di quanto si pensi. Abbiamo lo stesso temperamento e lo stesso umorismo. Possiamo essere dei buoni vicini. Io conosco un’altra Palestina e anche un altro Israele”. E non smette di ricordare, soprattutto al suo Paese, che “solo conoscendo l’altro non possiamo più rinnegarlo o fare come se non esistessero lui, la sua storia, la sua sofferenza. E saremo anche più indulgenti verso i suoi errori”. E’ la scelta di vedere le cose “con gli occhi del nemico”. E di “mantenere vivi i rapporti di base tra israeliani e palestinesi”, di “continuare a lavorare nelle rispettive società, come due gruppi di minatori che scavano sotto una collina e sperano di incontrarsi”.
Sono appena tornato dalla Polonia, la terra di Auschwitz-Birkenau, l’orrore di tutto un secolo fatto luogo. E di Cracovia e Varsavia, città martiri, testimoni e vittime degli abissi del nazismo, e insieme città indomite, eroiche nella resistenza al male. Visitando i lager e i ghetti ho capito fino in fondo quella che Grossman chiama “l’ansia ebraica”, il senso di solitudine che deriva dall’esperienza della persecuzione. Così come in Israele ho capito il senso di vulnerabilità che permea la vita quotidiana.
Ma la situazione del popolo palestinese, che da oltre 60 anni affronta il dolore della perdita della patria e l’umiliazione dell’occupazione, è insostenibile. Nelle prossime settimane tornerò in Palestina: troverò nuovi chilometri di muro di separazione costruito da Israele, e nuovi insediamenti dei coloni nei territori occupati. Ma così la prospettiva dei due Stati e della pace è colpita a morte.
In questa situazione la cosa che deve fare Spezia, città di Exodus, è sostenere e fare incontrare israeliani e palestinesi che stanno lavorando per la pace e la riconciliazione, come propone Grossman. E’ l’obbiettivo del Comitato Dialoghi di pace in Medio Oriente, appena costituito grazie alla collaborazione tra le istituzioni e alcune associazioni della città.
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