Il carcere, specchio di una comunità
Il Secolo XIX – 3 gennaio 2011 – Per conoscere un Paese vai a guardare le sue galere. E’ una bella frase, che ripetono in tanti. Ma non ci crede quasi nessuno. Perché le galere sono inguardabili. Io ho imparato a guardarle da assessore, quando facemmo un’esperienza pilota che coinvolse i detenuti di Villa Andreini nella cura del verde cittadino. Fu un successo: le aiuole dei Giardini e di altri parchi acquistarono nuovo splendore e alcuni detenuti, scontata la pena, trovarono lavoro come giardinieri. Poi ci sono tornato più volte da sindaco. L’ultima è stata qualche giorno fa, per verificare lo stato del carcere dopo i lavori di ristrutturazione, iniziati nel 2005 e ormai ultimati. E’ stato realizzato il parcheggio esterno; l’edificio adiacente è diventato sede degli uffici; i grandi cameroni che ricordavano i vecchi film americani sono scomparsi, per far posto a celle per due detenuti, con il bagno. Ora restano da realizzare il cortile per l’ora d’aria e il campetto da calcio, e le altre celle nell’edificio dove prima erano gli uffici: entro l’anno le opere saranno terminate. La capienza attuale è di 150 detenuti, poi sarà raddoppiata. Ci sarà anche una sezione per giovani-adulti (18-23 anni): è la fascia più critica, composta da ragazzi sia italiani che stranieri di ogni fascia sociale, in genere in carcere per reati legati alla droga.
“Non c’è solo la povertà economica all’origine dei loro crimini -mi spiega la direttrice Maria Cristina Bigi- ma anche la povertà dei valori: contano solo i soldi”. Più in generale, aggiungono gli educatori, “la popolazione detenuta oggi è più fragile di un tempo, più disorientata, e partecipa di meno”. Ma la Bigi, gli educatori e il personale non si arrendono. Il loro è un impegno per rispettare il dettato costituzionale che dice che la finalità della pena è “la rieducazione del condannato”. Le carceri italiane, in genere, sono in una situazione drammatica: sovraffollamento, carenza di personale, disumanità delle condizioni di vita dei detenuti, alto numero di suicidi. Fino al caso del povero Stefano Cucchi, picchiato brutalmente e non curato. Serve una svolta radicale: non solo più carceri, più vivibilità e più personale, ma anche ampliamento delle misure alternative alla pena detentiva e dei progetti di reinserimento sociale.
A Spezia il carcere è gestito con metodi innovativi, competenza e umanità, e la situazione è migliore. Si punta a creare 30-40 posti di lavoro per detenuti, da svolgere in carcere: saldocarpenteria, cucina, lavanderia. I corsi, finanziati dal Ministero o dalla Provincia, puntano anche a creare professionalità da utilizzare poi nella società, una volta usciti dal carcere. E si vuole proseguire nelle attività culturali, dal teatro alla scrittura, con l’obbiettivo di un giornale dei detenuti. Tutto ciò in un rapporto di collaborazione con Provincia, Comune, Prefettura e Asl, cioè con una rete tra tutte le realtà che si occupano di disagio sociale. Spezia si batte giustamente per il diritto al rispetto umano anche per chi non ne ha avuto per gli altri, per il diritto al lavoro e al reinserimento sociale. I detenuti devono riuscire a dare un senso alla loro pena. In questo modo la società si vedrà restituire non persone che in carcere si sono solo incattivite, ma persone con progetti e speranze.
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