Exodus e il ruolo della società civile
Il Secolo XIX – 17 maggio 2010 – Sessantaquattro anni fa, l’8 maggio 1946, presero il largo dal porto della Spezia le navi Fede e Fenice, che trasportavano verso la Palestina gli ebrei superstiti della Shoah. Tra loro c’erano alcuni sopravvissuti dell’epica rivolta ebraica del ghetto di Varsavia, combattenti che avevano seguito i russi fino a Berlino. L’ultimo libro di Marco Ferrari, “Il porto di Exodus”, ricostruisce quel ponte umano che saldò le due sponde del Mediterraneo, il senso di solidarietà che si diffuse nella città e che permise la partenza di altre navi. Quasi 25.000 ebrei raggiunsero la Terra promessa dalla Spezia, che da allora è chiamata in Israele “Porta di Sion”. Fu un’impresa che rende onore alla storia democratica della nostra città. La riportammo alla luce soprattutto per merito di Marco, fino ad ottenere il 25 aprile 2006 il più prestigioso riconoscimento della Repubblica: la Medaglia d’oro al merito civile.
Il libro è uno strumento utile perchè Exodus diventi sempre più parte fondamentale dell’identità degli spezzini. La partenza dei profughi simboleggia la ripresa della vita dopo l’orrore e la morte, la speranza in un futuro migliore. Ricordarla significa ammonire che mai bisogna rassegnarsi al male che c’è attorno a noi. Che mai dobbiamo lasciare che i nostri cuori si induriscano, che diventino indifferenti.
Dobbiamo ricordarci di Exodus e della domanda che ci ha lasciato la Shoa, “Che cos’è un uomo?”, ogni volta che scorgiamo il razzismo tra noi, o l’indifferenza con cui tanti rispondono a quell’ecatombe annunciata con il nome mite di “migrazioni”. Molti di noi badano a difendersi, magari perché “tutti i clandestini sono criminali”, come recita purtroppo una legge recente. E i valori declamati tutti i giorni? E l’”uomo”, l’”essere umano”, la “vita”… dove sono finiti? Una volta contano e un’altra no? Siamo tutti “esseri umani”, ma non è vero che tutti godiamo degli stessi diritti. Le diseguaglianze e le ingiustizie ci sono: Exodus ci insegna a non digerire tutto perché tanto non possiamo farci niente, ci dice che non è il tempo per il cinismo e la passività.
A Spezia, per fortuna, c’è un civismo che reagisce, e che fa rivivere l’”ospitalità” di Exodus. Trentadue associazioni si sono riunite nel coordinamento “Io non respingo”, per combattere razzismo e xenofobia e promuovere un modello di convivenza solidale e democratica. Nelle nostre esistenze dobbiamo lasciare entrare altre verità e, in una parola, il diverso. “Io non respingo” si batte per l’integrazione, per una città multietnica e multiculturale. Senza gli immigrati siamo destinati a invecchiare e a declinare: dobbiamo riconoscere loro cittadinanza, diritti, pari dignità in cambio di lealtà e rispetto delle regole comuni.
“Io non respingo” è la prova che la società civile è anche il luogo delle energie sociali che esprimono attese, progetti, ideali collettivi e chiedono di prendere parte alla vita politica e di esprimersi nelle istituzioni: che chiedono cioè una democrazia. Se la società si spegne e si ripiega su se stessa, se i governati non pretendono nulla dai governanti, la politica diventa mera amministrazione dell’esistente. E’ una politica non più vitale perché non corrisponde a bisogni sociali vivi. Ecco perché la società civile deve unire le forze e chiedere molto. E partiti e istituzioni devono riconoscerne l’esistenza, spesso negata con sufficienza, e poi porsi in quella posizione di servizio politico che, secondo la Costituzione, è la loro.
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