Così la città visse il giorno della strage
Il Secolo XIX – 13 dicembre 2009 – Quarant’anni fa, il 12 dicembre 1969, una bomba esplose in Piazza Fontana a Milano, provocando 17 morti. Il Ministro degli Interni disse subito che i responsabili erano gli anarchici. Si intensificò l’attacco alle lotte studentesche e operaie, che avrebbero offerto un terreno propizio agli attentati. Un anarchico, Giuseppe Pinelli, fu arrestato e morì il 15 dicembre, cadendo da una finestra della Questura. Rimangono sconosciute le cause della sua improvvisa, assurda fine. Era una persona buona, ed era innocente. La sua morte, come quella dei 17 di Piazza Fontana, addolora ancora. Lentamente si fece strada un’altra versione: prima con il libro “La strage di Stato”, poi con le indagini sulla “pista nera” e sui depistaggi dei servizi segreti. Cominciava la strategia della tensione: attentati per propagare panico e creare le condizioni di una svolta reazionaria. I processi per la strage continuarono fino al 2005: la responsabilità venne ricondotta all’estrema destra, ma gli imputati furono assolti. Anche le colpe degli apparati dello Stato rimasero indeterminate. La nostra democrazia porta su di sé questo peso.
Avevo 15 anni, ho un ricordo vivo di quei giorni. La mattina del 13 era stato organizzato uno sciopero studentesco di solidarietà con il Chiodo, che era stato occupato e poi sgomberato dalla polizia, il Nautico e l’Itis. Gli obbiettivi erano l’antiautoritarismo, la gratuità dei libri di testo e del trasporto, il no alle tasse scolastiche, il restauro di scuole fatiscenti. Fu deciso di rinviare il corteo in segno di lutto. Capii confusamente, quella mattina, che qualcosa era cambiato nelle nostre vite. Ricordo le immagini dei funerali, una piazza Duomo gremita. E, da noi, una grande manifestazione a Migliarina.
L’unità lavoratori-studenti era molto forte. Nel novembre partecipammo allo sciopero generale contro il carovita e a quello dei metalmeccanici per il contratto. Il ’69 operaio era stato influenzato dal ’68 studentesco ma a sua volta aveva inciso sugli studenti contrastandone l’estremismo. In comune avevamo il rifiuto dell’autoritarismo e la spinta libertaria ed egualitaria. Fu allora che conobbi gli operai, che poi furono per molti anni i miei compagni: Aldo Bertoli dell’Inma, Emilio Soli dell’Oto Melara, Dino Grassi del Muggiano, Ovidio Iozzelli della Pertusola, Sergio Salvatori della San Giorgio… Non erano come gli operai delle catene di montaggio delle fabbriche di Torino e Milano (la catena, a Spezia, c’era solo alla San Giorgio). Erano più “tradizionali”, specializzati, sindacalizzati, con una forte etica del lavoro. Ricordo in loro il rigore, il senso della missione della classe operaia come classe generale che doveva far crescere tutta la società, la capacità di dialogo con una generazione impaziente e generosa.
Il ’68-69 fornì uno stimolo fondamentale alle riforme degli anni successivi e lasciò un marchio indelebile: dall’atteggiamento verso l’autorità alle relazioni tra i sessi. Ma i valori più profondi di libertà e uguaglianza che propugnavamo furono sconfitti; non subito, come in Francia, ma con ritardo, nel corso di un decennio. Le cause furono innanzitutto gli errori nostri, della sinistra. Ma la strategia della tensione pesò. Dopo Piazza Fontana nulla fu più come prima. Passammo dagli anni della speranza a quelli di piombo. La sconfitta definitiva avvenne nel 1978, quando un altro terrorismo, quello rosso, frutto di una risposta tragicamente sbagliata al 12 dicembre 1969, uccise Aldo Moro.
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