Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Varese Antoni partigiano Varese Antoni politico

a cura di in data 16 Dicembre 2018 – 11:00

Nella ricorrenza dei dieci anni della morte
11 dicembre 2018

Intervento di Giorgio Pagano
Copresidente del Comitato Unitario della Resistenza

Varese Antoni nacque il 24 luglio 1921 a Pisa, ma fu sempre spezzino, della Chiappa. Studente diplomato ragioniere al Da Passano, si avvicinò giovanissimo al Partito Comunista. Ufficiale in Russia durante la Seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre 1943 partecipò alla Resistenza operando clandestinamente in città. Poi il partito lo fece “salire ai monti”, nella Brigata “Cento Croci”.
Dobbiamo ricordare che la nostra Resistenza nacque in Val di Magra grazie al nucleo comunista che poi darà vita alla Brigata “Muccini”; e in Val di Vara grazie al nucleo di Giustizia e Libertà a Torpiana, e grazie al gruppo guidato dai fratelli Cacchioli, borgotaresi, politicamente moderati, che già nel febbraio 1944 fecero un’azione a Sesta Godano. Era il gruppo “Beretta” -nome di battaglia di uno dei due fratelli Cacchioli- del quale facevano parte anche alcuni spezzini, in particolare comunisti, inviati dal partito e dal Cln. Subito dopo si costituì il gruppo di Federico Salvestri “Richetto”, un militare, anch’egli di orientamento moderato, che aveva raccolto adesioni di giovani del valtarese e del “varesotto”. Il 4 marzo 1944 i due gruppi si fusero nella Brigata “Cento Croci”: Gino Cacchioli (“Beretta”) ne divenne il comandante, “Richetto” il vice, Aldo Costi “Lo Zio”, vecchio antifascista comunista, il commissario. Nel 1944 i Cacchioli si spostarono nel parmense e “Richetto” diventò comandante, con Terzo Ballani “Benedetto”, altro comunista sperimentato, commissario. Il 4-5 agosto 1944 la “Cento Croci” salvò dall’accerchiamento l’intera IV Zona operativa, sconfiggendo i tedeschi sul monte Scassella. Fu un contributo decisivo in uno dei momenti più difficili della nostra Resistenza, che vide molte Brigate sbandate e disperse.
“Varese”, questo era anche il suo nome di battaglia, c’era già. Salì ai monti nel giugno 1944 e diventò comandante dei mortaisti. Partecipò ai combattimenti sul monte Scassella e poi a quelli contro la Divisione degli Alpini “Monterosa”, il 24 agosto e il 13 settembre, nel quale fu ferito.
Così racconta l’episodio don Luigi Canessa, cappellano capo della “Cento Croci”:
“All’alba del 13 settembre la ‘Monterosa’ ritentò la prova contro la ‘Cento Croci’. Questa volta non con l’arma del valore ma del tradimento… Il nemico, vicinissimo, allo scoperto, era facile bersaglio al fuoco dei nostri… La bandiera bianca era visibilissima: si arrendevano… La colonna si rimette in movimento, scende lentamente, arriva alla chiesa… Poi, con rapida manovra, piazzate le armi, apre un fuoco micidiale! La terza e la quarta compagnia rispondono con tutte le armi… Alle 15 anche i mortai entrano in azione. Varese, che comanda la sezione, vuota, una dopo l’altra, diverse casse di proiettili, che quando Varese spara arroventa i mortai e mette molte bombe a segno. Forse per questo hanno individuato la sua posizione. Un proiettile del 75-13 colpisce quasi in pieno la sezione. Il sergente Giovanni Calvi, già della ‘Monterosa’, è ucciso dai fratelli rinnegati. Sette feriti sanguinano per le schegge ricevute. Tra di essi c’è Mario Castagnoli, che non dà segno di vita e muore undici giorni dopo all’Ospedale di Albareto, v’è Varese che è gravemente colpito agli arti inferiori; vi sono gli altri che se la cavano con poco. I nostri mortai tuonano sempre. Gli uomini della ‘Cento Croci’ sono ancora sulle loro posizioni del mattino”.
Varese fu curato all’ospedale civile di Albareto, un ospedale partigiano che riuscì a far fronte al ricovero necessario di molti ammalati.
Ho un ricordo molto vivo di Varese uomo della Resistenza, perché me ne parlava spesso. Mi faceva vedere la foto con lui appena ferito alla gamba, circondato dai compagni, e l’altra in un letto dell’ospedale di Albareto, con i medici e le suore. Il suo pensiero andava sempre ai dottori Ugolotti, Colombati e Uggeri, agli studenti di medicina e soprattutto a suor Vincenza e a suor Caterina, le instancabili suore vincenziane partigiane.
Scrive don Canessa: “Suor Vincenza e suor Caterina erano le “mamme” dei partigiani. Quante volte furono visti questi due angeli di carità mendicare una sigaretta per i loro figlioli!”. Nel cinquantesimo della Liberazione Varese e i suoi compagni della “Cento Croci” -con cui ebbe sempre, negli anni, un rapporto fraterno- vollero posare, ad Albareto, una targa ricordo.
Varese si ristabilì e nel marzo 1945 era di nuovo ai monti. Con la “Cento Croci” garibaldina, dopo la divisione in due della Brigata. Che cos’era successo? Fin dall’inizio, scrive Giulivo Ricci in “La Brigata Garibaldina Cento Croci”, “cominciano a proporsi gli elementi di una situazione sentimentalmente e politicamente complessa, la cui contraddittorietà rimase come ovattata per l’urgere di problemi pratici da risolvere”: da un lato uomini moderati, vicini alla Democrazia Cristiana e ai liberali, come i Cacchioli, o caratterizzati dall’attivismo militare come “Richetto”, dall’altro gli spezzini, i comunisti Ballani e Costi, e poi Mario Bonamini, Flavio Maggiani, Marco Perpiglia (venuto a Spezia dalla Calabria), Cesare Storietti, Adriano Vergassola, lo stesso Varese. L’equilibrio precipitò con il rastrellamento del gennaio 1945. La Brigata “Coduri”, che pur operando in territorio spezzino apparteneva alla VI Zona operativa, quella dell’entroterra di Genova, si defilò verso Chiavari, e la “Cento Croci” fu messa in difficoltà. Al che si aggiunsero errori della stessa “Cento Croci”. Il ripiegamento e la salita al Gottero furono terribili, a 15-20 gradi sottozero alla notte. Il 22 gennaio “Richetto” fu preso prigioniero, con “Benedetto” e altri: tutti vennero liberati con uno scambio di prigionieri, ma non “Richetto”, che però riuscì a fuggire. In sua assenza, però, era stato eletto un nuovo comandante, il militare Alberto Perego “Wollodia”, non spezzino, ma ad essi legato. Al ritorno, “Richetto” non accettò la nuova situazione e, con lui, una gran parte dei parmensi e dei valtaresi abbandonarono la IV Zona e aderirono al comando parmense. Certamente la sostituzione di “Richetto” con “Wollodia”, e non con il vicecomandante legato a “Richetto”, appare oggi come un atto non condivisibile. Eppure, come emerge dai documenti, il Cln spezzino non ebbe incertezze. Possiamo solo immaginare il grande travaglio di quei tempi durissimi. Ormai la scelta di combattere in due diverse “Cento Croci” era ineluttabile. Ma nessuno tradì il proprio impegno: e oggi dobbiamo rendere onore sia alla “Cento Croci” di “Richetto”, che contribuì alla liberazione di Parma, sia alla “Cento Croci” garibaldina, che partecipò alla liberazione di Spezia. “Varese” ne fu protagonista: dalla battaglia di San Benedetto alla discesa verso la città, che fu, raccontava sempre, un grande abbraccio popolare, prima al Negrao, alla Chiappa, poi da lì fino a piazza Verdi.
La divisione della “Cento Croci” e poi le divisioni del dopoguerra non scalfirono però i legami tra gli uomini della Resistenza. Sono stato testimone della forza del rapporto umano e della solidarietà ideale tra Varese e uomini della Resistenza che hanno poi militato in partiti diversi: una forza che ha saputo resistere ai conflitti e che emergeva in tutti i momenti più difficili per la democrazia. Dell’antifascismo come valore costitutivo della nostra democrazia Varese è stato un custode, così come lo è stato del valore della Costituzione, espressione di culture politiche diverse che seppero gettare le basi comuni per la convivenza civile.
Da qui il suo ruolo di copresidente del Comitato Unitario della Resistenza in rappresentanza dell’Anpi. E il suo impegno infaticabile, entusiasta, contagioso per il monumento della Resistenza ai Giardini: praticamente era nell’ufficio del Sindaco, per parlarmene, quasi ogni giorno, superando la barriera, cosa che solo lui sapeva fare, della mia segretaria. Il Monumento della Resistenza è per me il simbolo anche di Varese partigiano, come il Museo di Fosdinovo è il simbolo di Paolino Ranieri partigiano: perché senza di loro questi due luoghi sacri della nostra memoria civile oggi semplicemente non ci sarebbero. Ma il monumento è per me un simbolo anche perché è il luogo dove il caso ha voluto che tenessi, a fianco di Varese, per l’inaugurazione, il mio ultimo discorso da Sindaco. Quasi un lascito, un monito a proseguire, nel mio piccolo, la sua opera di custode dell’antifascismo e della Costituzione.

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Varese Antoni “politico” è stato in gran parte amministratore, anche se il suo primo incarico fu associativo, presidente delle Cooperative dal 1945 al 1947. Fu Assessore alle Finanze nella Giunta di sinistra guidata dal Sindaco comunista Osvaldo Prosperi (1946-1951), poi Sindaco dal 1951 al 1957. Dopo l’arretramento del Pci e la costituzione del centrosinistra, Antoni tornò Sindaco con la crisi del centrosinistra e l’avanzata del Pci, in una fase di transizione complicata che portò, dopo le Giunte monocolore comuniste, nuovamente alle Giunte di sinistra: dal luglio 1971 all’aprile 1972; dal gennaio 1973 al settembre 1975; dal settembre 1975 al maggio 1976, quando fu eletto deputato.
Nessuno ha guidato la città per così tanto tempo: mi batte per pochi mesi, come mi faceva scherzosamente notare.
Nella prima fase si impegnò per la ricostruzione della città distrutta dalla guerra, tanto da diventare, quando Prosperi abbandonò Palazzo Civico per ragioni di salute, il suo “successore naturale”. Da Sindaco si adoperò sempre per superare le divisioni tra enti e, sulle questioni fondamentali, anche quelle tra le forze politiche e le forze sociali, pur in un’epoca di forti contrapposizioni ideologiche. Questo lo fece anche nella fase successiva, negli anni Settanta. Era la sua “rotta”, e non si stancava di suggerirmela, nei nostri incontri abituali. I Piani Strategici che caratterizzarono la mia esperienza nascono anche da questa sollecitazione.
Un punto fermo della visione di Varese fu poi l’importanza della cultura: dalla Biennale del Golfo alla fontana di Mirko Basaldella, nella prima fase, alla pubblicizzazione del Civico e al Centro Allende, nella seconda fase.
Nella seconda fase voglio inoltre ricordare il suo impegno nella tutela dell’ambiente: fece la prima ordinanza in Italia per imporre all’Enel l’uso di combustibile a basso tenore di zolfo e la sospensione di due dei quattro gruppi funzionanti.
Come politico Varese fu certamente un comunista con una forte autonomia di pensiero. Nel 1956 si astenne sull’ordine del giorno del Pci in Consiglio comunale di sostegno all’Urss sull’invasione dell’Ungheria. Il suo prestigio glielo consentì. Nel gruppo dirigente ristretto del partito -i miei maestri, insieme ai capi delle lotte operaie in fabbrica e ad alcuni insegnanti al Liceo Classico e all’Università- ognuno aveva una sua personalità, una sua autonomia. Anelito Barontini, Flavio Bertone, Aldo Giacché, Varese Antoni -per fare qualche nome- erano molto diversi tra loro. Avevano grandi pregi ma anche limiti, come ogni essere umano. Ma sapevano lavorare insieme, cooperare e non competere: l’unità che costruivano superava i limiti di ciascuno, faceva sì che ognuno desse il meglio di sé.
Varese aveva una fortissima intelligenza, era colto, amico degli artisti, arguto, perspicace. Era anomalo, forse, ma certamente apparteneva, con fierezza, al gruppo dirigente comunista. Era un uomo di principi: la sua fu una scelta di vita, la sua fu l’adesione di una vita. Agli ideali della Resistenza e a quelli del comunismo riformista, per cui sempre si batté.
Aveva un forte legame con il popolo. Con la crisi del centrosinistra, fu nuovamente il “candidato naturale”. Ricordo una manifestazione imponente al Civico, in cui Varese fu proposto dal gruppo dirigente e acclamato dal popolo. Gli operai dell’Inma -la fabbrica “rossa” per antonomasia- cantavano la canzonetta della pubblicità, allora famosa, dei salami Negroni, “Le stelle sono tante…”: la parola Negroni era sostituita con Antoni.
Sapeva comunicare. Aveva, nei comizi, una sua teatralità, nel gergo e nei movimenti della voce e delle braccia. Così quando salutava con le mani, come quel giorno al Civico: alla maniera della Regina d’Inghilterra. Quando accolse in piazza Europa il nuovo Vescovo monsignor Siro Silvestri, nel 1975, non gli diede la mano -gesto tipico dei Sindaci di sinistra- né si inginocchiò -gesto tipico dei Sindaci democristiani- ma lo abbracciò e lo baciò. “Il bacio del compromesso storico”, titolò un giornale. Quando la Galileo chiuse per la serrata del padrone si arrampicò con una scala, cinto dalla fascia tricolore, per scavalcare il muro, entrare nella fabbrica e requisirla. Quando lo criticarono per l’acqua della fontana di Mirko la bevve durante un comizio. L’opera gli era molto cara: nel mosaico c’è una falce e martello, che mi portava sempre a scoprire con un sorriso complice.
Varese l’ho conosciuto fin da ragazzo. Ma bene, molto bene, più tardi, alla fine degli anni ’80: nacque allora un’intesa fatta di tanti incontri, a casa sua tra i quadri di Cagli o nel suo ufficio. Oppure in trattoria da Caran -sarà stato parsimonioso, come dicevano, ma non mi ha mai permesso di pagare una sola volta- o nelle passeggiate in città, soprattutto ai Giardini. E’ in queste occasioni che ho preso, discutendo con lui, le decisioni personali più importanti della mia vita pubblica.
Alla fine comprese il mio distacco dalla politica dei partiti. Da comunista riformista, convinto assertore della scelta socialista, non amava, come me, il partito che stava nascendo tra 2007 e 2008. E vedeva la crisi morale e l’incapacità del gruppo dirigente, nazionale ma anche locale, di essere una comunità coesa con un “comune sentire”, pur tra diverse opinioni e sensibilità. Un mondo stava scomparendo, avanzava una mutazione politica e antropologica. Restavano solo persone in competizione, sempre più feroce, tra loro. Anche ai tempi di Antoni si fecero errori -il parco boe nel golfo, per esempio- come ai miei tempi -la gestione dell’Acam, per esempio-, ma nel primo caso si superarono con il confronto e l’unità del gruppo dirigente, nel secondo caso si fecero esplodere con le guerre interne al gruppo dirigente.
Nelle macerie attuali della sinistra domandiamoci infine: c’è qualcosa di attuale, che ancora oggi ci parla, nella lezione di Varese Antoni? Certamente sì: il socialismo riformista che non smette mai di criticare e di voler cambiare per renderla più giusta la società del capitalismo neoliberista; il legame con il popolo e la ricerca della partecipazione popolare; il rigore morale; la visione del partito come comunità libera ma coesa.
Ancora: nelle difficoltà più generali della politica democratica c’è qualcosa di attuale e che ci parla ancora, nella lezione di Varese Antoni? Certamente sì: è l’ancoraggio ai principi dell’antifascismo e della Costituzione, costitutivi della Repubblica. Non c’è alternativa: quali altri ideali abbiamo se non quelli che ci hanno ispirato nella lotta di Liberazione? L’unica alternativa è una repubblica priva di ogni elemento identitario, complesso di procedure gestite da una classe politica sempre più “castale”: una prospettiva inaccettabile. Che dobbiamo combattere facendo tesoro dell’insegnamento di uomini come Varese Antoni. Per questo lo salutiamo commossi e gli diciamo grazie.

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