Un 25 aprile per la pace
Città della Spezia, 25 aprile 2022
L’urgenza drammatica del tempo che viviamo ci impone, in questo 25 aprile, un tema di fondo: la pace. La pace, bene prezioso conquistato dalla Resistenza italiana ed europea, è in pericolo. I nazionalismi, all’origine della prima e della seconda guerra mondiale, si stanno ripresentando in modo molto preoccupante.
Va condannata con fermezza l’aggressione della Russia all’Ucraina, un atto di guerra che nega il principio dell’autodeterminazione dei popoli e che ha fatto precipitare il mondo sull’orlo di un conflitto globale, che potrebbe diventare nucleare.
Servono l’immediata cessazione dello scontro militare e un vero tavolo di trattativa tra tutte le parti. L’Europa e i suoi governi dovrebbero essere in prima linea per conseguire questi obiettivi.
Deve ritornare cioè la politica, intesa come capacità di composizione dei conflitti. Perché con la corsa al riarmo non si costruisce la pace.
La staffetta partigiana genovese Mirella Alloisio, nei giorni scorsi, ha detto: “Noi vogliamo la pace proprio perché abbiamo conosciuto la guerra. E perché ci spaventa una guerra che può andare a finire con la distruzione atomica”.
Venerdì, alla manifestazione in piazza Brin, il parroco ha letto un volantino stampato in parrocchia il 24 aprile 1945 dai giovani cattolici. C’è scritto: “Di guerra sentiamo di non averne più bisogno perché constatiamo dopo la presente che essa non risolve i problemi ma li acuisce e mette la divisione tra i fratelli”.
La pace era il vero valore, e il vero obiettivo, di chi combatté la “guerra di liberazione”. La “guerra di liberazione” voleva la fine della guerra, la fine di tutte le guerre, la condanna della guerra. E la ricerca della pace, come principio di civiltà contrapposto alla barbarie di ogni ideologia della morte.
Non a caso l’art. 11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. “Ripudiare” vuol dire non riconoscere più come proprio qualcosa che pure è nostro, o lo era fino a quel momento. Il carattere micidiale assunto dalla guerra fu cioè compreso dai resistenti, che pure avevano vinto anche con le armi, quando divennero costituenti.
Servono l’unità di tutte le forze di pace del nostro Paese e il dialogo tra tutte le forze antifasciste per ricercare la via del negoziato. La diversità di opinioni su singoli punti non deve impedire questo dialogo e la ricerca dell’unità più ampia possibile.
L’unità va cercata senza però smarrire il significato profondo della Resistenza, la sua funzione ideale e civile che è fondamento della nostra democrazia e della nostra libertà.
Da qualche settimana ho ripreso, tramite il Comitato Unitario della Resistenza e l’Associazione Culturale Mediterraneo, il dialogo con gli studenti. Ho visto molta vitalità. Anche se la perdita di socialità che c’è stata negli ultimi due anni, unita alla percezione di un orizzonte chiuso da una crisi senza fine e dalla guerra, ha creato il senso di un’assenza di futuro. L’occasione del 25 aprile va colta per cercare di colmare questo vuoto. La bellezza civile della ricerca dei valori dà senso alla vita. Quali altri valori abbiamo se non quelli della Resistenza e della Costituzione?
Non smarrire la centralità della Resistenza nella storia d’Italia significa riconoscerla come l’unica, vera, lotta democratica e popolare degli italiani. Una lotta vissuta con una varietà di comportamenti: non solo la Resistenza armata, ma anche gli scioperi operai, il sostegno dei contadini e in primo luogo delle donne, l’impegno dei sacerdoti, il rifiuto dei militari internati nei campi nazisti di aderire alla Repubblica di Salò, il rifugio dato agli ebrei perseguitati. Fu un processo che non iniziò dopo il 25 luglio 1943, ma che aveva alle spalle una lunga storia avviatasi con l’antifascismo delle origini e l’opposizione ventennale al regime fino al progressivo rifiuto, dal 1940, della guerra a fianco della Germania. Questo processo fu la matrice della Costituzione, un felice compromesso che vide l’apporto di tutte le correnti ideologiche e le forze politiche.
Tutto ciò spiega la profonda diversità tra la Resistenza italiana e quella ucraina. Come ha scritto lo storico Alessandro Volpi ciò “non significa negare la piena legittimità del popolo ucraino di difendersi dall’invasione russa”. La distinzione “è però necessaria per evitare una pericolosa generalizzazione che rischia di far smarrire” l’identità della nostra Resistenza, la sua “funzione ideale e civile di fondamento della libertà e della democrazia italiana”.
Volpi ricorda giustamente che il termine “Italia” compare nella Costituzione solo due volte: nell’art. 1, dove viene sancita la sua qualità “democratica, fondata sul lavoro”, e nell’art. 11, che “ripudia la guerra”. Anche i termini “Patria” e Nazione” sono usati, nella Costituzione, in modo parsimonioso, per rimuoverne l’abuso strumentale fattone dal fascismo. “La nazione indicata nella nostra Costituzione -conclude Volpi- non ha nulla a che fare con il nazionalismo, un elemento del tutto distante dal sacrificio della Resistenza italiana, in cui non sono mancate le esperienze della lotta nonviolenta”, come quelle della Resistenza civile.
Non esiste, quindi, il fenomeno della “resistenza in quanto tale” per definire l’opposizione di un popolo a un’invasione. Se noi considerassimo la Resistenza italiana solo come lotta armata e “per la nazione” indeboliremmo il suo significato e la sua assoluta insostituibilità nella storia del Paese.
Di più: la Resistenza italiana fu un processo che portò alla Costituzione, cioè a un progetto per il futuro che è ancora attualissimo. Dall’analisi storica emerge con nettezza non solo che la Resistenza italiana non fu “nazionalista” e che si svolse nell’ambito della “guerra popolare europea” contro il nazifascismo; ma anche che la Costituzione che ne scaturì inserì l’Italia nel grande filone del costituzionalismo europeo, arricchito da una più accentuata sensibilità ai temi sociali.
L’occasione del 25 aprile va quindi colta per valorizzare sia le forme della Resistenza civile -ne ho scritto ieri su questo giornale con riferimento al ruolo insostituibile delle donne- sia, come hanno fatto recentemente molti storici, da Enrico Acciai a Carlo Greppi, la dimensione europea, internazionale e transnazionale che univa i movimenti di resistenza contro i fascismi nei vari Paesi, una dimensione “che prescinde e si scontra con le questioni dell’identità nazionale e della nazione”, hanno scritto gli storici Chiara Colombini e Enrico Manera.
La lotta popolare più importante che si svolse in Italia fu strettamente interconnessa con la lotta antifascista continentale. I “resistenti internazionali e transnazionali” furono molti: i prigionieri di guerra alleati che furono liberati o riuscirono a fuggire dai campi di internamento rimanendo però bloccati dietro le linee nemiche, e si aggregarono alle bande partigiane; coloro che vissero lo sbandamento delle proprie Forze Armate in territorio occupato dal nemico, come i militari italiani che combatterono nelle resistenze jugoslava, albanese, greca e francese; i disertori dell’esercito tedesco, fenomeno quantitativamente non irrilevante e moralmente assai significativo.
Per comprendere pienamente il fenomeno della Resistenza europea bisogna pensare a una cronologia più ampia, che includa anche la guerra di Spagna (1936-1939). Nella Resistenza spezzina, per esempio, il disertore tedesco Leonhard Wenger, partigiano della Brigata Gramsci, era reduce da quel conflitto.
Alcuni furono addirittura “partigiani di tre nazioni”, come l’arcolano Bruno Rolla, che combatté a Madrid e sull’Ebro, dove fu ferito, poi a fianco degli etiopi che resistevano all’invasione coloniale da parte del regime fascista, infine nella Resistenza italiana. La dimensione internazionale, in questo caso, supera lo stesso eurocentrismo e diventa modernità cosmopolita.
Ci fu anche il fenomeno inverso: nella 175ª Brigata Garibaldi Sap Guglielmetti, che operò in Val Bisagno, combatté un partigiano eritreo, Brahame Segai, nato nel 1900. Non sappiamo altro di lui. Qualcosa di più sappiamo di Nicolau do Rosário, nato il 4 settembre 1894 a São Vicente, nelle isole africane di Cabo Verde, caduto a Genova il 24 aprile 1945 in combattimento. Nicolau faceva parte della 863ª Brigata Garibaldi Bellucci (o Caio) e fu ucciso da una raffica di mitra nei pressi dell’ospedale Galliera.
Non c’è dubbio: il concetto di “resistenza nazionale italiana” va decisamente allargato.
Giorgio Pagano
co-presidente del Comitato Unitario della Resistenza
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