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Sviluppo cantieristica e dignità del lavoro ieri oggi e domani
22 marzo 2024
LE LOTTE DI IERI
Relazione di Giorgio Pagano

a cura di in data 7 Gennaio 2025 – 21:44

Sviluppo cantieristica e dignità del lavoro ieri oggi e domani
22 marzo 2024

LE LOTTE DI IERI
Relazione di Giorgio Pagano

C’è un filo rosso che accompagna la storia della classe operaia del Muggiano e della sua intensa coscienza di sé. Dino Grassi lo individua nella Memoria di ho curato la pubblicazione[1] – quando si sofferma su due rilevanti personalità del biennio rosso, il socialista Angelo Bacigalupi e l’anarchico Pasquale Binazzi, entrambi operai del Cantiere.
Dino e Bruno Scattina, nelle interviste per la ricerca pubblicata dalla CGIL nel 2001[2], testimoniarono la continuità con le vicende del biennio rosso anche con riferimenti personali. Il padre di Dino, comunista, «ha partecipato all’occupazione delle fabbriche perché inizialmente lavorava qui al Muggiano e in seguito a questo è stato licenziato»[3]. Il padre di Bruno era socialista, «ha dormito sette giorni nei tetti prima di scappare in Argentina, prima di tornare a casa e morire. […] Lo ricercavano i fascisti per ammazzarlo, per la politica, perché era un uomo che si qualificava di fronte a tutti per quello che era»[4].
Dino e Bruno appartenevano a due famiglie perseguitate e poverissime. Cominciarono a lavorare a quattordici anni. Nella vita li ha legati la consapevolezza della priorità dei bisogni umani e del lavoro, che è stata e resta il fondamento di ogni ispirazione socialista e comunista. Ma anche anarchica: Binazzi fu un combattente straordinario per l’umanità e per il lavoro.
La memoria del 1919-1920, e del 1921-1922, quando ci fu chi lottò fino all’ultimo contro il fascismo, rinsaldò in loro questa consapevolezza. Il simbolo del rosso, nella Resistenza, aveva racchiuso un’affermazione di identità ma anche il desiderio di riscattare la sconfitta del biennio, appunto, rosso.
Aveva ragione Vittorio Foa a sostenere che il Novecento non va letto come «un’ininterrotta violenza distruttiva», perché esso è anche «frutto di passioni e di sofferenze, di invenzioni individuali e collettive, di interi cicli di lotte sociali»[5]. Il biennio rosso, il periodo in cui, all’interno delle fabbriche, «ebbero luogo […] i più bei comizi di cui io mi ricordi»[6], «sembrava il caos ed era un disegno politico e civile che il fascismo distrusse ma che preparò l’Italia della repubblica, quella del 1946»[7]. C’è un nesso tra le lotte dell’Italia della Resistenza e della Repubblica, le lotte degli anni Sessanta, quelle del 1968-1969… No, il Novecento non è stato solo violenza e politica come potenza. È stato anche altro, infinite possibilità positive.
Dino, nella Memoria, evoca – per esempio – il valore attuale del mutualismo del movimento operaio e rivendica l’esperienza mutualistica degli anni Cinquanta e Sessanta al Muggiano: dato che i primi tre giorni di malattia e di infortuni non venivano retribuiti, e i giorni successivi venivano pagati al 50%, i lavoratori versavano l’1% della retribuzione come fondo integrativo. Con il fondo-cassa della mutua aziendale fu costruito anche un ambulatorio a Ruffino, vicino al Cantiere.
Tra le infinite possibilità positive c’è l’internazionalismo, anch’esso rivendicato da Dino: dallo sciopero internazionale di solidarietà con la rivoluzione russa del 20-21 luglio 1919 agli scioperi di solidarietà con i popoli oppressi dal colonialismo, dall’imperialismo e dalle dittature, che nel secondo dopoguerra videro i lavoratori del Muggiano sempre in prima fila. L’internazionalismo era una vera e propria cultura politica, un’identità, una continua attenzione a individuare l’orizzonte internazionale entro cui collocare l’azione politica, che non si lasciava racchiudere nel solo legame con l’URSS.
Questi nessi tra passato, presente e futuro costituiscono un filo rosso ma non significano una continuità evolutiva, perché comportarono anche rotture, sia pure interne. Durante il ventennio, tra gli operai, penetrò anche l’ideologia fascista. Gli operai del 1943-1945 e degli anni successivi costruirono una coscienza nazionale e unitaria della lotta di classe che nel 1919-1920 non c’era. Tuttavia forse persero qualcosa, rispetto alla cultura operaia diffusa nella prima guerra mondiale e poi nel biennio rosso: sullo sfruttamento c’erano molte meno tracce nelle piattaforme. La separatezza operaia, nel confronto, ci appare minore. Rotture interne dentro una continuità di fondo: «il vecchio ritrova sé stesso diventando diverso»[8].

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Il filo rosso di continuità consiste innanzitutto nel fatto che la lotta dei lavoratori del Muggiano è sempre stata, nei suoi momenti alti, una lotta morale.
La risposta di Dino a una domanda del questionario predisposto per la ricerca della CGIL del 2001 iniziava così:

La vita in fabbrica mi forma professionalmente e mi educa a quello stile di vita operaio: correttezza, pulizia morale e materiale, lealtà[9].

Nella video intervista del 2007 alla Fondazione Ansaldo, alla domanda finale «Che cosa insegna la sua esperienza?», Dino rispose: «L’onestà, il disinteresse, la sincerità”[10].
Vent’anni dopo, nell’Intervista in appendice alla Memoria, ripete, a una domanda analoga, le stesse parole. Aggiunge: «battersi contro le ingiustizie, senza arrendersi mai»[11].
La dimensione morale della lotta in lui è sempre centrale. La questione della lotta alle ingiustizie coincide con la questione della lotta morale. Edward P. Thompson esprime il concetto nel modo più chiaro:

La storia della lotta di classe è al tempo stesso la storia della morale umana[12].

Se esaminiamo le lotte raccontate nella Memoria ci accorgiamo che la dimensione morale è costante.
Nelle testimonianze di Dino e di Bruno emergono “codici culturali” fondati sull’”etica del sacrificio” – potremmo definirla “etica del lavoro-etica del sacrificio” – che venivano da lontano. Il socialismo, sia riformista che massimalista, aveva infatti sviluppato fin dagli inizi una cultura “educazionista” che propugnava le qualità del lavoratore capace, fiero del mestiere, autodidatta: il modello su cui puntava era quello del produttivismo, della rispettabilità, della morigeratezza. Nel solco di questa tradizione si mosse anche l’ordinovismo gramsciano. Si trattò di una cultura forte e consistente, che era ancora egemone negli anni Cinquanta. Un bravo operaio comunista e socialista era anche un operaio che doveva saper lavorare bene. Era una cultura che esprimeva una sorta di emulazione politica e culturale con il diretto interlocutore in fabbrica: su chi, tra l’operaio e il padrone, fosse più “produttivo” o più “operoso”. L’austerità personale e la professionalità convivevano con il ribellismo e l’antagonismo. Pensiamo, a proposito di austerità, alla vergogna, quasi, per «le mani bianche»[13], non callose, di Dino Grassi comunista distaccato in Commissione Interna: per questo volle tornare in produzione, nel 1958 (fu rieletto nel 1964).
C’è sempre stata, negli ansaldini, una sensibilità particolare sulla lotta morale. Dino entrò in Cantiere nel 1940, come “scaldachiodi”:

gli operai mi hanno insegnato […] a come vivere[14].

Bruno entrò nel 1941, anche lui come “scaldachiodi”:
Lì abbiamo avuto dei maestri morali, perché il Muggiano è sempre stata una grossa fucina di uomini, a differenza di molte altre fabbriche. Lì imparavi ad essere un politico e un uomo, che era una caratteristica non comune allora tra la gente [15].

Su quel che accadde al Muggiano nel 1943-1945 rimando alla relazione presentata al convegno organizzato dal Comitato Unitario della Resistenza e da CGIL, CISL e UIL il 7 marzo scorso[16], e all’articolo che ho pubblicato su Patria Indipendente, il giornale online dell’ANPI[17]. In estrema sintesi: al Muggiano, come alla Spezia e in Italia, in quel biennio rinacque la classe operaia. Tra le componenti della società che uscivano dalla guerra nessuna poteva offrire una immagine così definita come quella della classe operaia.
Nel corso dei due anni, inoltre, nacque e si legittimò il partito operaio, il PCI. Ma anche PSI e DC stabilirono un rapporto con settori della classe operaia.
La rinascita della classe agì, inoltre, nella strutturazione del nuovo sindacato, che assunse una dimensione di massa in cui trovarono posto opzioni politiche e sindacali diverse, fino alla scissione del 1948.
I lavoratori del Muggiano scioperarono il 29 luglio 1943, poi dal 7 al 10 gennaio 1944, e ancora il primo e il 2 marzo 1944. Nei quarantacinque giorni del governo Badoglio, dopo la caduta del fascismo, furono tra i primi in Italia a eleggere i rappresentanti nella Commissione Interna; nel febbraio 1944 sabotarono in modo eclatante le elezioni della Commissione Interna volute dai fascisti della RSI.
Lo sciopero di marzo fu uno “spartiacque”[18].
Il colpo che i nazisti e fascisti subirono fu pesante. La repressione antioperaia era stata drammatica, anche al Muggiano: cinque organizzatori dello sciopero furono deportati a Mauthausen, solamente uno di loro fece ritorno. Il Cantiere fu colpito da un altro drammatico rastrellamento, con deportazione di forza lavoro in Germania, il 30 giugno 1944. Ma quella classe che resisteva aveva ormai assunto, nella società e nella politica italiane, una funzione “nazionale” e “unitaria”.
La protesta presentò sulla scena gli attori di una nuova generazione operaia – di lì a poco i protagonisti della Resistenza armata – e delineò i valori della centralità del lavoro e la funzione positiva del conflitto sociale.
Il lavoro umano si propone come fondamento della realizzazione di sé.
Il conflitto sociale si propone come lo strumento principale per difendere il lavoro umano e affermarne la centralità.
Se leggiamo i documenti del CLN e dei partiti antifascisti nati o rinati nella Resistenza cogliamo la centralità di questi valori, che furono poi sanciti dalla Costituzione.

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Nel primo dopoguerra Dino e Bruno si impegnarono nei rispettivi partiti, PCI e PSI, e nella CGIL di Di Vittorio, dopo la scissione.
Sia Dino che Bruno erano grandi estimatori di Di Vittorio. Scattina diceva perfino che, di Di Vittorio, lui era «innamorato»[19]. Una lettera di Dino del 2002 si concludeva con il ricordo di un evento «memorabile»:

è stato alla Spezia (teatro Monteverdi) che la CGIL ha festeggiato in una memorabile manifestazione il sessantesimo compleanno del suo amato Segretario generale Giuseppe di Vittorio. E non credo che la scelta della nostra città sia stata dovuta al caso[20].

Il segretario della CGIL fu una personalità indubbiamente originale. Il Piano del lavoro del 1949 fu un’iniziativa di ricostruzione del paese che dimostra come la CGIL non fosse solo “cinghia di trasmissione” del PCI, secondo lo schema leninista del rapporto partito-sindacato. In questo caso, in implicita distanza dalla cultura liberista imperante nel partito, Di Vittorio diede al Piano una connotazione keynesiana che fu anticipatrice.
Di Vittorio si impegnò fin dall’immediato dopoguerra in una autonoma elaborazione di un progetto sindacale. La CGIL, dopo la scissione, aveva certamente anche sue ragioni profonde di debolezza: una politica rigidamente centralizzata e la mancanza di una rappresentanza sindacale diretta nei luoghi di lavoro. Ma gli anni 1949-1955 non possono essere liquidati come una parentesi ideologica e settaria.
La lettura dei numeri de «lo scalo», il giornale dei lavoratori del Muggiano, ci spiega non solo quanto gli ansaldini fossero umiliati e quanto resistessero, ma anche come fossero attenti ai problemi concreti e alle rivendicazioni aziendali, ancor prima che fosse sancita la linea del “ritorno in fabbrica”. Per esempio ci fu, negli operai del Muggiano, una sensibilità “mutualistica” sui temi dell’assistenza e della sanità che ho già ricordato, e che li portò più volte a criticare la FIOM provinciale, come racconta Bruno.
La CGIL fu un modello politicamente prezioso di doppia appartenenza: per il sindacato e per il partito. Ma sarebbe meglio dire che l’appartenenza fu tripla: anche per la classe. Prima di tutto, infatti, Dino apparteneva alla classe: era «un operaio». Nella Memoria e nell’Intervista Dino sostiene che Bruno avrebbe meritato di svolgere incarichi più importanti, e che non poté farlo perché non era comunista. Nel suo archivio c’è una cartella intitolata Bruno Scattina: contiene un diario dei giorni che precedettero la morte di Bruno. Dino scrive ancora di questa “ingiustizia”. È un’insistenza che ci dice che prima ancora di essere comunista e sindacalista Dino era, come Bruno, un operaio.
La busta contiene anche un testo: è il discorso che Dino tenne il 17 giugno 1978 alla Festa operaia de «L’Unità», in occasione del pensionamento di Bruno. Gli fu data una “medaglietta”. Il testo è intitolato Attestato di riconoscenza.  Per la prima e unica volta nei tanti scritti di Dino la parola «Lavoro» ha due volte l’iniziale maiuscola:

Scrivere, parlare di Bruno… si potrebbe durare a lungo, sarebbe un rievocare di uomini e di fatti, di lotte vissute, di lavoro politico e sindacale e di lavoro inteso come attività produttiva vera e propria che Bruno certo, con la sua indiscussa capacità espressiva, ben riusciva a elevare nel significato che il Lavoro ha di valore umano e spirituale ma che certamente ricavava dal modo come il Lavoro era ed è inteso dagli operai del suo Cantiere[21].

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Prima degli anni Ottanta, incubati già nei Settanta, della solitudine e del riflusso, vi fu un “decennio caldo” di affermazione della classe operaia. Fu il frutto di un eccezionale ciclo di lotte che Dino richiama nel 2002:

È dalla “lezione” della sconfitta subita alla Fiat che, con Agostino Novella alla direzione della FIOM, inizia quella “contrattazione articolata” che consentirà, nel tempo, il rovesciamento del “paternalismo aziendale” mediante, appunto, le rivendicazioni sindacali a livello di azienda. Il primo esempio concreto alla Spezia credo sia stata – nel 1961 – la lotta unitaria guidata […] unitariamente da FIOM, FIM, UILM del gruppo Ansaldo (Genova, Spezia, Livorno) che vide, dopo dieci anni, un grande corteo di “tute blu” ansaldine (era il 17 maggio 1961, mi pare) percorrere viale San Bartolomeo e le principali vie cittadine che tanto impressionò ed emozionò l’opinione pubblica (tra l’altro ricordo, al riguardo, la Lettera di una studentessa e il dibattito operai-studenti svoltosi nella nostra città e che particolarmente trovò ampio spazio su «l’Unità»)[22].

Dopo il 1945 la cultura economica e politica della sinistra non era adeguata alla forza acquisita con la Resistenza. Anche per questo – non solo per i condizionamenti internazionali – la vecchia Italia liberista riaffermò la sua egemonia. A ciò si unirono il clericalismo e la prepotenza neofeudale nei luoghi di lavoro. Fu un’epoca di grandi drammi individuali e collettivi. Ma Dino e Bruno e tanti come loro si impegnarono con passione nuova. Dopo il trauma della sconfitta a Spezia della lotta del 1951 e delle sconfitte nazionali del 1954-1955 gli operai del Muggiano tornarono a costruire le rivendicazioni a partire dalle concrete condizioni di lavoro, con l’orgoglio operaio che li aveva sempre contraddistinti: «Il Muggiano in ginocchio non c’è mai stato»[23].La lotta radicata nella condizione operaia fu la premessa al processo di unità sindacale.
Nel 1964 la “congiuntura” – la recessione alimentata dalla drastica politica monetaria della Banca d’Italia e del governo – fu utilizzata per indebolire il sindacato e tornare al modello precedente.
Ma gli operai “non ne potevano più”: diedero vita a processi di resistenza che innescarono il conflitto che sarebbe esploso da lì a poco.
Intanto tra gli operai e i giovani si delineava sempre più un comune sentire, già in embrione nei moti del 1960.
Al Muggiano il periodo 1964-1967 fu caratterizzato da grandi lotte per la salvezza del Cantiere, che presero ancora più forza dopo la decisione degli ansaldini di «mettere “una marcia in più”»[24].
La vertenza del 1961 era stata unitaria e vittoriosa. Quella del 1962, condotta dalla sola FIOM, si era invece conclusa con una sconfitta. Dal 1963 si realizzò a poco a poco l’unità sindacale. Paradossalmente la svolta fu accelerata da uno sciopero della sola CGIL, quello del 7 marzo 1968 sulle pensioni, a cui il sindacato più forte fu costretto dalla mobilitazione della base. Parteciparono molti lavoratori di CISL e UIL. Da allora ogni sciopero, per moltissimi anni, fu sempre unitario.
Dino ricorda che sia nel sindacato che nel partito c’era il timore «che ci spingessimo troppo avanti»[25]. Non era solo moderatismo, contava anche il fatto che i dirigenti si erano formati dopo la sconfitta della lotta del 1951: il nemico attaccava e si doveva garantire la sopravvivenza delle forze. Ma nella nuova fase bisognava passare dalla “resistenza” all’”offensiva”: la “marcia in più”.
I primi a capirlo furono i sindacati dei metalmeccanici. A metà 1968 fecero l’autocritica e, in autunno, i sindacati confederali e di categoria lanciarono l’“offensiva”: vertenze aziendali, lotta sulle pensioni, battaglia contro le zone salariali.
Si formò una nuova identità collettiva degli operai, e si realizzò l’unità tra FIOM e FIM, e poi tra CGIL e CISL: la CISL fu debitrice verso la CGIL del classismo, la CGIL ebbe in dono dalla CISL la partecipazione e il personalismo. Dino usa spesso il termine “persona” come a suggerire quel valore del lavoro che viene dalla Costituzione e che è integrato con il concetto della persona-valore.
La strategia rivendicativa fu molto radicale: aumenti salariali, controllo della produzione, riforme sociali. Il risultato fu la più ampia redistribuzione sociale di reddito, poteri e diritti mai avvenuta nel corso della storia repubblicana.
Per Dino l’Autunno caldo aveva radici nelle lotte operaie, in particolare in quelle dei primi anni Sessanta. Probabilmente senza il Sessantotto studentesco non avrebbe avuto la stessa carica dirompente. La fusione nella lotta tra la nuova e la vecchia classe operaia fu facile per la disponibilità al nuovo da parte della vecchia. Dino fu un interlocutore attento del movimento studentesco degli inizi. Descrive il ’69 operaio quasi con il linguaggio del movimento: «un soffio di libertà».[26] Per Bruno, uscito dal PSI “da sinistra” e diventato segretario provinciale del PSIUP, «la spontaneità di questi ragazzi era veramente esaltante»[27]. Poi quando, progressivamente dal 1969, il movimento perse il suo slancio più libertario e creativo cedendo a un maggior dottrinarismo, subentrò la rottura.

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Uno dei punti chiave della Memoria è la storia della lotta per la salvezza del Cantiere, per il quale la programmazione economica nazionale proponeva il declassamento a cantiere di riparazione. La lotta, tuttavia, si concluse positivamente. Dal 1971 lo stabilimento fu potenziato e continuò a produrre navi mercantili: la realizzazione più importante fu la Lloydiana, al cui varo lavorò anche Dino, a quel tempo operaio e consigliere regionale. Fu ribadita l’originaria vocazione militare del Cantiere che dal 1975 a oggi è stato dedicato alla costruzione e all’allestimento di navi militari. Come dice Dino, gli operai pensano «innanzitutto al posto di lavoro»[28]. Le avanguardie operaie nei momenti “alti” si sono battute per diversificare e riconvertire l’industria bellica. Ma se non è semplice la costruzione della coscienza di classe, lo è ancor meno l’intrecciarsi della coscienza di classe con la coscienza pacifista e internazionalista. Essa fu forte nella Prima guerra mondiale e riemerse – non subito, ma dal luglio 1943 – nella Seconda. La costruzione dell’identità della classe operaia spezzina è stato un processo tormentato, perché ha dovuto fare i conti con una doppia tensione: il disagio provocato dal produrre armi per la guerra e il pensiero rivolto al mantenimento del posto di lavoro.
La lotta per la salvezza del Muggiano fu la questione focale nella Spezia degli anni Sessanta: fu condotta dagli ansaldini con una grande capacità di coinvolgimento dell’intera città, dagli altri lavoratori agli studenti e ad ampi strati di ceto medio.
Lo sciopero generale dell’11 marzo 1969 fu, in questo senso, il momento chiave. Non fu una lotta localistica, ma impostata con il respiro di chi richiede un cambiamento dal basso di una programmazione nazionale sbagliata, nell’interesse locale e nazionale.
Su questa base si innestò l’iniziativa del PCI spezzino – allora forza di opposizione – che condusse alla rottura del centrosinistra e al ritorno al governo locale delle Giunte di sinistra. Ma la lotta per il Muggiano non ebbe solamente conseguenze politiche. Fu determinante per il modello di sviluppo della città, come evidenzia Dino Grassi:
La salvezza del Muggiano ha consentito alla Spezia di rimanere una città industriale, che ha mantenuto la cultura della produzione del “pezzo” della nave o della barca. Senza quella battaglia oggi non saremmo una delle “capitali” della nautica da diporto[29].
Più in generale, la vicenda del Muggiano è una cartina di tornasole del fallimento della programmazione economica del centrosinistra, proprio sul terreno che avrebbe dovuto caratterizzarlo. Il fallimento di questo progetto riformista è alla radice dei fallimenti successivi. Lo scacco del centrosinistra prepara quello del “compromesso storico”. E la vittoria di una strategia che, al fondo, fu sempre basata sulla centralità del mercato e sulla residualità della politica. E che vide il PCI troppo passivo. Perché, scomparso Togliatti, non seppe andare oltre.

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Arriviamo così al cuore del dramma di Dino e di Bruno: il fallimento, dopo l’Autunno caldo, del passaggio operaio da classe subalterna a classe egemone. Dalla fine degli anni Settanta, e progressivamente negli anni Ottanta, Dino fu sopraffatto dal dolore per la rinuncia all’ispirazione al «socialismo» e per «l’abbandono del mondo del lavoro»[30]. Così Bruno. La loro era una critica al partito – Bruno era nel frattempo confluito nel PCI, con la maggioranza del PSIUP – ma anche alla CGIL di Luciano Lama.
Dino aderì per un breve periodo, dopo lo scioglimento del PCI, a Rifondazione Comunista. Così Bruno. Lui, militante socialista da sempre, nel finale della sua vita usò il termine «comunismo»:
Sono molto preoccupato e sono spaesato. Non c’è un punto di riferimento. […] Anche se penso che in futuro… questa è una convinzione intima, mia, non so quanto sia, sarà possibile verificarla… però credo che il mondo non possa andare avanti con questo modo di rapporti umani, nei rapporti commerciali, nei rapporti industriali, nei rapporti internazionali… non può durare. Dev’esserci per forza un’alternativa a questa società. Io credo che, se torniamo a fare un discorso di volontariato, senza burocrazia, senza niente, il problema del comunismo… non dovrebbe essere un’idea malsana[31].
Non è difficile cogliere ciò che sostanzia l’amarezza di Dino e di Bruno : il lavoro si è sempre più frantumato e impoverito, l’identità della classe operaia si è frammentata. Una classe che nell’era tecnologica e della globalizzazione ha mutato di segno, ha cambiato luoghi e linguaggi.
La classe operaia non è più il depositario predestinato della verità futura. Perché non c’è alcun depositario predestinato della verità futura. Ma ciò non significa che la questione sociale sia risolta, anzi. Dino ha ragione:
La classe operaia esiste ancora, e soffre[32].
Il tema dell’oggi è come unificare gli operai, i precari e i lavoratori intellettualizzati, con l’obiettivo di dare valore economico, sociale, professionale a tutti i lavori e di realizzare per tutti un percorso di libertà del lavoro e attraverso il lavoro.
Resta ancora tanto da dire, da fare e da inventare: per la persona che lavora, per la classe e per le sue istituzioni: il sindacato, forse – chissà – il partito. La storia di Dino e di Bruno spinge a pensare il mondo nuovo con la consapevolezza delle potenzialità di una parte del passato. A «riattizzare nel passato la scintilla della speranza»[33].

Giorgio Pagano

[1] DINO GRASSI, Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista, (a cura di GIORGIO PAGANO), ETS, Pisa 2023.
[2] Testimonianze di DINO GRASSI e di BRUNO SCATTINA, in archivio Vasco Sensoni.
[3] Testimonianza di DINO GRASSI, cit.
[4] Testimonianza di BRUNO SCATTINA, cit.
[5] VITTORIO FOA, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996, p. 377.
[6] MARIO MONTAGNANA, Ricordi di un operaio torinese, Vol. I, Sotto la guida di Gramsci, Edizioni Rinascita, Roma 1949, p. 125.
[7] VITTORIO FOA, Questo Novecento, cit., p. 377.
[8] VITTORIO FOA, Il cavallo e la torre, Einaudi, Torino 1991, pp. 326-327.
[9] In archivio Dino Grassi.
[10] Fondazione Ansaldo – Raccolta La Liguria del saper fare si racconta, intervista 47, Dino Grassi, 2007.
[11] DINO GRASSI, cit., p. 159.
[12] EDWARD P. THOMPSON, Morris, un rivoluzionario senza rivoluzione, in WILLIAM MORRIS, Lavoro utile fatica inutile. Bisogni e piaceri della vita, oltre il capitalismo, Donzelli, Roma 2009, p. XXIII.
[13] DINO GRASSI, cit., p. 70.
[14] Ivi, p. 127.
[15] Testimonianza di BRUNO SCATTINA, cit.
[16] GIORGIO PAGANO, Gli scioperi di Gennaio e Marzo 1944 e l’assalto al treno di Valmozzola del 13 Marzo 1944 nelle testimonianze inedite dei protagonisti, 7 marzo 2024, www.associazioneculturalemediterraneo.com
[17] GIORGIO PAGANO, Gli scioperi del 1° marzo 1944, quando la Storia cambiò per sempre, «Patria Indipendente», primo marzo 2024.
[18] CLAUDIO PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 343.
[19] Testimonianza di BRUNO SCATTINA, cit.
[20] In archivio Dino Grassi.
[21] In archivio Dino Grassi.
[22] Lettera di Dino Grassi a Enrico Santini e a Remo Sensoni, 22 maggio 2002, in archivio Dino Grassi.
[23] Testimonianza di BRUNO SCATTINA, cit.
[24] DINO GRASSI, cit., p. 92.
[25] Ivi, p. 153.
[26] Ivi, p. 151.
[27] Testimonianza di BRUNO SCATTINA, cit.
[28] DINO GRASSI, cit., p. 156.
[29] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. II, Edizioni Cinque Terre, La Spezia 2021, p. 444.
[30] DINO GRASSI, cit., p. 155.
[31] Testimonianza di BRUNO SCATTINA, cit.
[32] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. II, cit., p. 770.
[33] WALTER BENJAMIN, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 24.

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