Ricostruire la memoria, la nuova frontiera della battaglia inaugurata dalla Resistenza: come difendere oggi la libertà e i diritti civili
Biennale della Resistenza
Santo Stefano Magra
22 ottobre 2022
Intervento di Giorgio Pagano
storico, copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza
Sul tema di oggi il contributo di Gad Lerner sarà preziosissimo.
Lerner è infatti autore, con Laura Gnocchi, di “Noi partigiani”, Memoriale della Resistenza italiana: centinaia di volti, di interviste, di storie di vita raccontate in tarda età, dal 2019 a oggi, da partigiani e partigiane allora giovanissimi. Un’opera fondamentale, preziosissima appunto, per ricostruire la memoria.
Ricostruire la memoria è un’opera immane in un’epoca smemorata. Ci tornerò.
In questi giorni ci è pervenuto un altro contributo preziosissimo: il discorso con cui Liliana Segre ha aperto dal più alto scranno del Senato la XIX legislatura, a cento anni dalla marcia su Roma. Con parole semplici, forti, da partigiana, la senatrice Segre ha riassunto il senso profondo delle nostre radici repubblicane, da Calamandrei a Matteotti. Un discorso importante, dal grande valore simbolico. Dovrebbe essere letto e commentato in ogni scuola.
Gad Lerner, sul “Fatto Quotidiano” del 18 ottobre, ha posto la grande questione che abbiamo davanti in questa fase: l’antifascismo è giustizia sociale, è qui che va misurata la sua forza, la sua attualità; ma non possiamo rinunciare alla battaglia per l’egemonia culturale, non possiamo lasciar campo libero ai La Russa e ai Fontana. I temi sono connessi: oggi chi è portatore di liberismo economico e di ingiustizia sociale è portatore anche di conservatorismo etico. Basti vedere i nomi dei ministri ma anche dei ministeri: “Istruzione e merito” ma anche “Famiglia e natalità” e “Agricoltura e sovranità alimentare”. Liberismo e nazionalismo. Tecnosovranismo, dice qualcuno: sospensione tecnica della politica, subalternità della politica all’economia e ossessione dell’identità, timore verso tutto ciò che è estraneo e altro. Il rischio che corriamo è ritrovarci più diseguali e meno liberi.
Contro questo mix abbiamo un formidabile anticorpo: la Costituzione. Come ha detto Liliana Segre: “il popolo italiano ha sempre dimostrato grande attenzione alla Costituzione, l’ha sempre sentita amica”. La Costituzione, ha aggiunto, “non è un pezzo di carta, ma il testamento di 100 mila morti caduti nella lunga lotta per la libertà: una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vide idealmente come capofila Giacomo Matteotti”. Noi potremmo aggiungere: e gli arditi del popolo che nel 1921 difesero Sarzana e nel 1922 la Serra di Lerici e l’Oltretorrente a Parma.
La Costituzione è il formidabile anticorpo che ci richiama e ci obbliga alla giustizia sociale e ai valori della Resistenza. Non a caso Liliana Segre ha accostato il 1° maggio, il 25 aprile e il 2 giugno:
“Le grandi Nazioni dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria. Perché non dovrebbe essere così per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute come date divisive, anziché con autentico spirito repubblicano, il 25 aprile, festa della Liberazione, il 1° maggio, festa del lavoro, il 2 giugno, festa della Repubblica?”
Diciamolo fino in fondo: non è vero che fascismo e antifascismo sono categorie da rottamare, confinate nel Novecento. E’ un’analisi profondamente sbagliata, tanto più in un Paese come il nostro, che è stato la culla del totalitarismo. E in cui non c’è, è vero, il pericolo del ritorno del fascismo inteso come fascismo dello stivalone, ma c’è però il pericolo del ritorno del fascismo inteso come costellazione di valori ereditati dal fascismo.
Il fascismo non richiama solo un regime politico dittatoriale. Incarna una cultura, un modo di concepire i rapporti tra gli individui e i sessi, l’organizzazione della vita collettiva. Il fascismo può tornare come valori, opinioni, convinzioni, comportamenti. Il fascismo come regime è morto il 25 aprile 1945, il fascismo come luogo culturale e ideologico, come visione regressiva dei valori non è mai morto.
E’ il “fascismo eterno”. Ha scritto Umberto Eco, nel 1995: “Si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia”.
Caratteristiche tipiche del “fascismo eterno”, secondo Eco, sono il culto della tradizione, il culto dell’azione per l’azione e il sospetto verso il mondo intellettuale, la paura della differenza e il razzismo, l’appello alle classi medie frustrate, l’ossessione del complotto e la xenofobia, la concezione della vita come una guerra permanente, l’elitismo e il disprezzo per i deboli, il culto della morte, il machismo, il populismo e il disprezzo per il Parlamento.
Non dimentichiamoci del clima culturale e ideologico nel quale è maturato l’assalto alla CGIL di un anno fa. La fiamma, mai rinnegata, è il simbolo dei valori regressivi del “fascismo eterno”, fin dal 1922.
Ecco perché il Forum delle Associazioni antifasciste e della Resistenza, riunito nei giorni scorsi, ha scritto che “si aspetta da parte dei Presidenti della Camera e del Senato la scrupolosa osservanza del dettato costituzionale e come primo atto del nuovo governo, comunque sarà formato, un inequivocabile pronunciamento antifascista proprio in occasione della prossima ricorrenza del centenario della Marcia su Roma”. Il patto costituzionale è a fondamento della Repubblica e va rispettato anche da coloro che non lo sottoscrissero.
Va combattuta la vulgata di destra che disegna il fascismo come un’ideologia in fondo benevola che solo alcune circostanze, alcuni anni più tardi, sospingeranno verso l’infamia delle leggi razziste e la criminale decisione di entrare in guerra al fianco di Hitler. In realtà il fascismo fu violento fin dalla nascita, anticipando e aprendo la strada al nazismo.
Nel convegno tenutosi qualche giorno fa a Spezia su “L’avvento del fascismo tra violenza e complicità delle istituzioni”, è emerso con chiarezza. Mussolini diede vita, d’intesa con il re, a un governo di coalizione, che comprendeva popolari, liberali, demosociali, nazionalisti e altri non fascisti. Ma i drammatici avvenimenti che si avranno subito dopo l’esordio del nuovo governo dimostreranno l’insopprimibile tendenza totalitaria del fascismo. Chi sosteneva che il fascismo sarebbe presto entrato nel sistema liberale non aveva compreso nulla. Nel “passaggio di consegne” la classe dirigente liberale consentì l’introduzione immediata di nuove forme di esercizio del potere. Pensava alla continuità, ma aprì a una brusca rottura con il passato. A Spezia ci fu, nell’arco di poche settimane, una vera e propria strage di antifascisti. Poi toccherà a don Giovanni Minzoni, ai due fratelli Rosselli, mentre Piero Gobetti morirà in seguito alle violenze ricevute, e Antonio Gramsci sarà rinchiuso in carcere e liberato solo alla vigilia della morte.
Aveva già visto tutto, o almeno l’essenziale, Giuseppe Bertelli, in un articolo sul giornale anarchico spezzino “Il Libertario” dell’8 febbraio 1921:
“Qual è il fine dei fascisti? ‘La difesa della patria e dell’ordine’, rispondono essi? Ma quale patria: quella di oggi o quella di domani? Quale ordine? Quello del lavoro o quello dei pescicani?”.
Va combattuta anche la dimenticanza della violenza e dello stragismo di destra degli anni Sessanta e Settanta, dal piano Solo alla strage di piazza Fontana e al tentato golpe Borghese, a cui certamente non fu estranea almeno una parte del MSI. In questo caso non si può nemmeno pronunciare quel ridicolo e auto-assolutorio “Io non c’ero, non ero ancora nato”.
Va combattuto, infine, il revisionismo anti antifascista, che dagli anni Ottanta è proseguito e cresciuto fino ad oggi: “Mussolini ha fatto anche cose buone, i ragazzi di Salò animati anche dalla buona fede…”. Va combattuto perché è alla radice dell’erosione del patto antifascista. Oggi sono circa 600 i nomi di vie e monumenti, censiti dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che commemorano esplicitamente il ventennio e i suoi “eroi”: è vergognoso, ma le proteste cadono spesso nel vuoto. Alla Spezia abbiamo finora impedito l’intitolazione di una via a Giorgio Almirante. Ma dobbiamo restare vigili. “La battaglia culturale contro il revisionismo anti antifascista -ha affermato lo storico Carlo Greppi nel convegno spezzino dei giorni scorsi- appare ancora impari. Eppure, forse, qualcosa di non trascurabile si muove”.
Ritorno, per concludere, sul tema della memoria. Abbiamo un bisogno vitale della religione civile dell’antifascismo. E’ l’unica “anima” possibile della nostra democrazia: non ne abbiamo altre. Così ho scritto nel libro “Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945”:
“Non c’è alternativa a una riconsiderazione e a una reinterpretazione dell’antifascismo e del ‘patriottismo costituzionale’ come spazio repubblicano super partes: quali altri ideali abbiamo se non quelli che ci hanno ispirato nella lotta di Liberazione? L’unica alternativa è una repubblica priva di ogni elemento identitario, complesso di procedure gestite da una classe politica sempre più ‘castale’: una prospettiva inaccettabile”.
Ma sono scomparsi i vecchi “imprenditori della memoria”: i partiti antifascisti.
E l’offensiva revisionista, spinta dalla volontà di mettere in discussione il significato storico, politico ed etico della Resistenza e dell’antifascismo, ha raccolto ben più di un successo.
Il problema vero, ha scritto la storica Chiara Colombini, non è “tanto la perdita della memoria della Resistenza, ma piuttosto la presenza fin troppo concreta di una memoria drogata e deformata”.
Se così è, serve tornare testardamente a raccontare la storia e le storie delle donne e degli uomini che l’hanno vissuta, cercando di conoscere ciò che è stato e di rivendicarlo per come è stato.
Come fa l’ANPI, come fanno Gad Lerner e Laura Gnocchi, come abbiamo fatto noi ieri raccontando le storie delle partigiane e dei partigiani della Val di Magra, come cerco di fare anch’io nel mio piccolo ruolo di “narratore di storie e di speranze”.
Emerge in questo modo un’esperienza collettiva e di popolo, che vide protagonisti non solo gli eroi della Resistenza armata ma anche quelli della Resistenza civile.
Se raccontiamo questa storia, queste storie, ci accorgiamo sì della portata del revisionismo, ma anche dei risultati nonostante tutto raggiunti grazie alla Resistenza: l’aver avviato alla democrazia un Paese uscito da vent’anni di dittatura, la “presa di parola” delle persone, la conquista della Repubblica e della Costituzione, che ha consentito a quella democrazia di reagire a crisi profondissime. La Resistenza ha creato anticorpi mai andati perduti, che ci parlano ancora e che sono una risorsa per il futuro. Delle ragioni di quel miracolo lontano ci resta la speranza della partecipazione, la voglia di prendere in mano la nostra vita.
L’antifascismo è dunque una cultura “fondante”, che serve nel mutare dei tempi.
Leggiamo le parole profetiche dello storico Sergio Luzzatto in “La crisi dell’antifascismo” (2004):
“In un giorno non lontano, fuori d’Italia e forse anche dentro il nemico avrà un altro nome e un altro volto. Probabilmente quel nuovo ‘ismo’ ancora da battezzare sarà una miscela di rigurgito patriottico e di anelito mistico, di religione del mercato e di ideologia dello scontro tra civiltà: sarà un ‘totalitarismo democratico’ che pretenderà di far coincidere la globalizzazione economica con l’occidentalizzazione politica e culturale del pianeta, una guerra dopo l’altra, sempre più restringendo e privatizzando le libertà civili. Entro un simile scenario, e mentre la fragilità della democrazia appare evidente persino tra le mura del tempio americano, come non riconoscere che quanto noi italiani intendiamo per antifascismo minaccia di riuscire un patrimonio di cose non solo desuete, ma anche periferiche, marginali?
Insomma, può ben darsi che l’antifascismo giaccia oggi sul suo letto di morte: malato terminale di ritualità, di credibilità, di senilità, e addirittura di eccentricità. Ma può essere che valga la pena di impegnarsi a mantenerlo in vita ancora un po’ -almeno finché non si sia trovato di meglio- senza meritare con questo una denuncia per accanimento terapeutico. E forse il tentativo è tanto più opportuno o addirittura necessario nel contesto della vita politica italiana, dove la morte dell’antifascismo rischia di significare non già una rinascita, ma l’agonia della democrazia”.
E’ così: non c’è democrazia senza antifascismo. Non è vero che l’antifascismo è giunto al tramonto. E’ più attuale che mai, contro quei nuovi “ismi” che prevedeva Luzzatto: sovranismo cioè nazionalismo aggressivo ed escludente. Presente in tutti i Paesi, declinato in tanti sotto “ismi” diversi.
Ancora la Patria, come diceva l’anarchico Bertelli nel 1921… Ancora la Nazione, la Tradizione…
Oggi i leader di questi “ismi” dicono “Prima gli italiani” e cantano “Non passa lo straniero”.
Ma quando gli stranieri erano gli occupanti tedeschi -ha scritto Carlo Greppi- “i loro vassalli fascisti […] li affiancavano -e molto volentieri- nelle stragi dei civili (italiani), nelle cacce all’uomo e nelle deportazioni degli oppositori politici (prevalentemente italiani) ed ebrei (prevalentemente italiani)”.
Così come c’è un “fascismo eterno” c’è un “antifascismo eterno”.
Ha scritto lo storico Giovanni De Luna (1995):
“Ci si può riferire all’antifascismo come a una forma particolare della concezione della politica totalmente svincolata dal canonico ambito cronologico del ventennio fascista e definita attraverso elementi che appartengono drammaticamente alla realtà del nostro tempo: la tolleranza, la libertà, i diritti degli uomini, l’uguaglianza, la giustizia, il rispetto delle regole e della convivenza civile”.
Dobbiamo aggiungere: la pace, una rinnovata coesistenza pacifica.
L’”antifascismo eterno” è ciò che emerge dalle storie delle ragazze e dei ragazzi di allora, e che parla ancora alle ragazze e ai ragazzi di oggi.
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