Ricordo di Facio
Adelano di Zeri, 22 luglio 2016 – Anche quest’anno, come ogni anno, ricordiamo il partigiano Dante Castellucci “Facio”, eroe della nostra Resistenza. All’alba del 22 luglio 1944 “Facio” venne giustiziato da un plotone d’esecuzione, composto da altri partigiani. Aveva appena 24 anni, ma la sua vita era stata ricca e intensa. Da bambino era emigrato dalla Calabria in Francia, aveva partecipato alla guerra in Russia e aveva poi disertato per combattere con la Resistenza: fu compagno dei fratelli Cervi in Emilia, prima della loro uccisione, e poi comandante, sui nostri monti, del battaglione “Guido Picelli”. Si contraddistinse per eroiche azioni militari: leggendaria è la battaglia del Lago Santo del 18 e 19 marzo 1944, che vide nove partigiani, sotto la sua guida, resistere vittoriosi a un assedio tedesco e fascista durato venti ore. Viveva con i suoi uomini, ponendosi per ultimo quando venivano distribuiti vitto, vestiario, sigarette: propugnava così, nei fatti, un comunismo egualitario e umanitario.
Vorrei ricordarlo con le parole di chi l’ha conosciuto.
Il grande attore Otello Sarzi, che fu con lui e i Cervi, lo descrive come un “uomo integerrimo, un vero Robespierre”.
L’ufficiale inglese Gordon Lett, comandante del “Battaglione Internazionale”, lo ricorda come “un giovane intellettuale che si era conquistato il rispetto dei suoi uomini per le sue qualità di soldato e per il buonumore con il quale affrontava con essi i disagi della vita in montagna”.
Questo il ricordo di Pietro Gnecchi, l’ultimo eroe della disfida del Lago Santo ancora in vita: “Era un uomo coraggioso, così in gamba come lui non ce n’erano altri”.
Così Pietro ricorda la battaglia: “Lanciavano bombe a mano col manico, ma noi siamo riusciti a prenderne molte che non erano ancora scoppiate e a rilanciargliele contro… ‘Facio’ ci dava coraggio, diceva: ‘Ragazzi, non abbiate paura, se dobbiamo morire moriamo tutti assieme’… Era una tomba, non c’era salvezza, non ci conoscevamo più in faccia l’un con l’altro, tanto eravamo sporchi, feriti dalle schegge, sfiniti. E’ stato ‘Facio’ che ci ha aiutato a non ammazzarci, parecchie volte ci siamo puntati le armi per ammazzarci noi, piuttosto che farci ammazzare dai tedeschi. Io mi ero provato la rivoltella in bocca per vedere come fare, ma ‘Facio’ ci urlava: ‘Coraggio ragazzi, saremo gli eroi per la libertà della patria’. Ci ha sempre salvati lui a noi, altro che balle”.
Nello Quartieri “Italiano”, partigiano con “Facio”, poi comandante, dopo la sua uccisione, del Battaglione “Matteotti-Picelli”, ricorda la povertà dell’equipaggiamento e dell’armamento della formazione, ma anche il clima di fraternità e di collaborazione che si viveva al suo interno. “Facio” era il garante dell’assoluta eguaglianza di condizione tra tutti i partigiani: “Tutto veniva diviso in parti eguali, dal cibo alle sigarette, dal vino agli abiti”. Era una comunità, coerente con gli ideali comunisti di “Facio”. La Resistenza, dice sempre “Italiano”, “aveva anche una dimensione culturale”. E racconta, per spiegarlo, di quando una volta mangiarono in una casa in cui non c’era nessuno, ma lasciando una lettera e dei soldi; e di come “Facio” insegnasse, quando entravano in una casa contadina, “a pulirsi i piedi e a rigovernare la cucina”. “Italiano” conclude: “Era una sorta di Che Guevara, dopo la liberazione non si sarebbe fermato e sarebbe andato dovunque nel mondo a combattere per la libertà”.
Ed ecco, infine, la testimonianza di Paolo Acerbi, allora sedicenne di Sesta Godano:
“La banda ‘Facio’ aveva la sua base operativa nel versante zerasco del monte Gottero, era scesa a Sesta per fare rifornimenti e, all’occasione, dare una lezione a qualche fascista. Non ce n’erano in realtà molti di fascisti nella nostra zona; ne trovarono solo alcuni perché gli altri si erano velocemente nascosti. Non fuggì Pietrin che venne catturato in casa e portato in Municipio, dove ‘Facio’ aveva installato provvisoriamente il comando. Venne chiesto a mia madre di fare un tentativo di salvare Pietrin. Mia madre non si tirò indietro, si affrettò anzi ad entrare in Municipio e chiese, in modo fermo e risoluto, di parlare col comandante. La sua richiesta non poté essere ignorata. ‘Comandante, lei ha la fama di essere un uomo duro ma onesto. Non si macchi di un crimine! Lasci libero quest’uomo; posso assicurarle che non è una spia’. ‘Facio’ si irrigidì e chiese con tono altezzoso: ‘Ma chi è questa donna che viene a dirmi quel che devo o non devo fare? Perché vuol salvare questo lurido fascista?’. La frase non intimorì mia mamma, anzi ne aumentò la determinazione: ‘Sono una che ha quattro figli dalla vostra parte, ai monti, e anche in questo momento non so cosa possa essere loro capitato. Non posso negare che quest’uomo sia stato un fascista, ma non una spia, come qualcuno lo ha descritto. Lei deve credere a me, deve lasciarlo andare!’. E ‘Facio’ lo lasciò veramente andare, anzi glielo consegnò”.
Viene in mente un altro episodio raccontato da Otello Sarzi: dopo il 25 luglio 1943 la folla festeggiante di Fabbrico sta per linciare un giovane fascista, ma è proprio Dante Castellucci a salvargli la pelle rischiando a sua volta il linciaggio, frapponendosi tra lui e gli aggressori e urlando “Non è così che si combatte il fascismo, massacrando un povero scemo”.
Testimonianze di persone molto diverse tra loro, che mettono in luce i tratti fondamentali della personalità di Facio: l’eroismo e il coraggio, l’ardimento morale prima ancora che militare; la lucidità; l’umanità e la solidarietà; la cultura.
Eppure a giustiziare “Facio” non furono i tedeschi o i fascisti ma alcuni suoi compagni di lotta: alla radice vi fu l’ambizione di Antonio Cabrelli “Salvatore”, che voleva sostituirlo, ma anche il modo drammaticamente sbagliato con cui un gruppo di partigiani comunisti spezzini si pose il problema dell’unificazione e della politicizzazione delle prime bande. La ricerca storica deve andare avanti, ma ci ha detto l’essenziale.
Abbiamo quindi un dovere. Esaudire la supplica di Pietro Gnecchi: “Portatemi dal Presidente della Repubblica, a ‘Facio’ bisogna togliere la medaglia d’argento basata sul falso e dare la medaglia d’oro per il suo eroismo”. La stessa supplica di Nello Quartieri sul letto di morte: “Continuate la battaglia per rendere giustizia a ‘Facio’. Dobbiamo liberare la coscienza della Resistenza dalle sue macchie, per renderla più pura e più fonte di insegnamento morale e politico”.
Pietro e “Italiano” hanno ragione: dobbiamo conoscere anche i lati oscuri e i prezzi pagati, per fare emergere la straordinaria grandezza di quella lotta crudele e spietata in cui la Nazione italiana tornò a nuova vita e conquistò la democrazia. Fu un travaglio doloroso, ma è così che gli italiani sono tornati a essere cittadini di una Patria comune. E dobbiamo rendere giustizia a “Facio” e a tutti coloro che furono vittime delle ombre e dei tradimenti della Resistenza, sconfiggendo ogni strategia di occultamento della verità.
La legge del 25 febbraio 2016 ha aperto alla possibilità di concedere nuove qualifiche e decorazioni.
La legge ci dà, dunque, la possibilità di rendere giustizia a “Facio”. Il suo Comune natio, Sant’Agata di Esaro, ha presentato la richiesta della revoca della falsa medaglia e del conferimento di una nuova onorificenza, a “Facio” e ai combattenti del Lago Santo. La richiesta è stata controfirmata dai copresidenti del Comitato Unitario della Resistenza di Spezia e dal presidente dell’Anpi provinciale di Massa-Carrara . Nelle scorse settimane ho incontrato Laura Seghettini, la compagna di “Facio”: a lei giunga il nostro saluto affettuoso. Poco prima di morire “Facio” disse a Laura: “Un giorno qualcuno farà luce sulla mia storia”. L’abbiamo fatta, in buona parte, questa luce, ma ora bisogna andare fino in fondo. Dobbiamo farlo per “Facio” e per la Resistenza.
Con Pietro Gnecchi, l’ultima volta, ci siamo detti: “Di fronte all’Italia com’è oggi, è valsa la pena del sacrificio di tanti giovani ai monti?”. Certo, “ne è valsa la pena”, mi ha detto Pietro. Comunque e nonostante tutto. E questa non è solo la risposta di Pietro, è la risposta collettiva di una generazione che ha lottato e che si appresta a lasciare la scena. L’addio alle famiglie, i ponti minati, il freddo e la neve, la fame, i pidocchi, anche la violenza, a volte brutale: sì, ne è valsa la pena, perché è stato il modo in cui il popolo italiano ha conquistato la libertà ed è rinata la nostra Nazione. Comunque e nonostante tutto, nonostante vicende tristi e dolorose come quella di “Facio”.
Una Nazione non vive senza miti fondativi, e la Resistenza è il nostro mito fondativo. Nulla può sostituire l’antifascismo come fondamento della Nazione: perché fu il fascismo a toglierci la democrazia, e fu la Resistenza antifascista a riconquistarla. Quali altri ideali abbiamo da porre alle basi della Repubblica se non quelli che ci hanno ispirato nella lotta di Liberazione e che sono alla base della Costituzione? L’unica alternativa è una repubblica priva di ogni elemento identitario, complesso di procedure gestite da una classe politica sempre più “castale”: una prospettiva inaccettabile. In questi anni il Paese e il mondo si sono guastati in modo tale che a tutti ci spaventa e a tanti ha fatto perdere la fiducia di poterlo riparare. Ma “Facio” e la Resistenza ci aiutano a reagire: perché ci ricordano la necessità dell’impegno personale e sociale, dell’ardimento morale, dell’essere attori e non spettatori della storia.
Grazie “Facio”, nel tuo nome cercheremo di uscire dalle angustie dell’io e di riabituarci a declinare il noi. E ci impegneremo per la difesa dei valori dell’antifascismo e della Costituzione nata dalla Resistenza.
Giorgio Pagano
Copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia
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