Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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IL LAVORO ED IL SINDACATO IERI ED OGGI – Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” a cura della CGIL – Venerdì 26 gennaio ore 17 all’Urban Center – Intervento di Giorgio Pagano

a cura di in data 1 Giugno 2023 – 21:24

IL LAVORO ED IL SINDACATO IERI ED OGGI
Presentazione di
Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia
a cura della CGIL
Venerdì 26 gennaio ore 17
Urban Center della Spezia
Intervento di Giorgio Pagano

Il libro è un libro di “storia glocale”. La storia locale è, da allora, anche storia globale. In quegli anni si formò infatti la prima generazione globale: anche la coscienza dei giovani spezzini, studenti e operai, era globale e, come tale, è stata studiata. I fatti locali sono stati sempre ricostruiti su una scala che tenesse presente non solo la dimensione nazionale ma anche quella internazionale.
Un’altra caratteristica del libro è l’attenzione alla dimensione della soggettività. Ciò emergeva già nelle mie due ricerche precedenti dedicate alla Resistenza spezzina. La lezione fondamentale è stata per me quella di Claudio Pavone e del suo libro “La guerra civile”: un libro non sulla moralità della Resistenza (e sulle sue contraddizioni) ma sulla moralità che le persone espressero nella Resistenza (e sulle loro contraddizioni). La Resistenza fu in primo luogo agita da persone, così il Sessantotto. Ho cercato quindi di “trovare le idee nei comportamenti”. Questa attenzione alla dimensione soggettiva deve molto al Sessantotto, che non a caso fu per Pavone lo spartiacque del proprio lavoro. Il libro dà la parola a molti: in questo senso non è solo un libro sul Sessantotto, è anche un libro “sessantottino”.
Ancora: un’altra caratteristica delle mie ricerche è l’intreccio tra testimonianze, documenti, immagini, altre fonti culturali, dalle canzoni -i cui versi danno il titolo ai miei libri- al cinema. Le testimonianze sono fonti fondamentali, ma la riflessione complessiva dello studioso deve collocarle in una prospettiva più ampia, che utilizzi anche i documenti. Ma a volte i documenti non dicono tutto: per fare un esempio, la verità su un “celebre” episodio del Sessantotto spezzino -il morso all’orecchio di un giovane fascista da parte di un giovane comunista durante un’aggressione fascista a un picchetto- emerge per la prima volta nel libro grazie a una testimonianza. Anche le immagini, “punti di partenza per pensare” – come dice Tano D’Amico – sono fonti fondamentali: ogni epoca ha i suoi volti, i suoi sorrisi. Sono fonti anche le canzoni: quelle degli anni Sessanta sono spesso “manifesti programmatici” – così Beppe Carletti, fondatore dei Nomadi, definisce “Dio è morto”. E il cinema: non fu forse il neorealismo cinematografico a scoprire i limiti veri della Resistenza e le ragioni della continuità tra l’Italia fascista e l’Italia democristiana?

Gli anni Sessanta furono anni di speranza
Il titolo del libro è un verso di “Dio è morto”, che alla Spezia fu cantata per la prima volta il 24 novembre 1967 al Teatro Monteverdi.
Dice Francesco Guccini, l’autore della canzone, nel libro:
L’aggiunta finale della speranza non mi venne dalla volontà di trasmettere il canonico happy end, ma dal fatto che all’epoca la speranza covava veramente.
Ma qual era il mondo nuovo per cui si sperava e si lottava?
Innanzitutto era un mondo antiautoritario.
Negli anni Sessanta prese corpo, fino all’esplosione nel 1968-1969, una rivolta etica (Paul Ginsborg) o ribellione morale (Peppino Ortoleva): una lotta antiautoritaria contro autorità a cui non si riconosceva più legittimità. Una contestazione della grande razionalizzazione autoritaria che negava autonomia, autorealizzazione di sé e dignità alla persona umana: allo studente della scuola nozionistica e gerarchica, che ossificava la cultura, come all’operaio della fabbrica fordista, nella quale i calcoli ingegneristici applicati ai tempi di produzione si sposavano con un comando brutale affidato all’onnipotenza e alla prepotenza dei capi.
Si trattò di un movimento complesso, che aveva alle origini una miscela di sentimenti e di politica, un intreccio tra l’affermarsi di una volontà esistenziale di autogoverno della propria vita e lo sviluppo di un’azione collettiva ispirata ai valori della fratellanza.
Protagoniste furono anche le giovani donne, anche le operaie: all’insegna, in questa fase, più dell’emancipazione e della parità che della liberazione e della differenza. E tuttavia anche tali caratteristiche segnarono, per l’ampiezza delle ragazze coinvolte, qualcosa di veramente nuovo.
Si formò una comunità giovanile – composta da persone – con la sua cultura, i suoi stili di vita.
Assunse forme nuove la comunità operaia, – composta da persone.
Emerse una nuova generazione di operai. E tuttavia la rivolta non fu solo un fatto generazionale anagrafico.
Leggiamo le parole di un giovane operaio, Claudio Rissicini, a proposito dello sciopero all’OTO Melara del luglio 1968, il primo dopo diciotto anni:
Si dice che il merito fu della nostra generazione, ma se questo è vero, lo fu indirettamente. Qualche giorno prima dello sciopero, ricordo che cominciò a circolare il passaparola che ci saremmo fermati ad una certa ora di uno dei giorni successivi, e tale passaparola anziché arrivare dai giovani, arrivò da molti lavoratori, anziani o maturi, anche moderati, che però non ce la facevano più.
Dalla testimonianza di Dino Grassi, uno dei “capi” della classe operaia del Muggiano, emerge con forza il tratto di una classe operaia non corporativa, ma con una forte componente “storico-morale”:
Del miracolo economico a noi operai arrivavano solo le briciole. La vita degli operai non valeva nulla. Abbiamo lottato, abbiamo creato l’unità sindacale, il 1961 fu l’anno delle prime conquiste. Il Muggiano è stato per me e per centinaia di operai una scuola di lavoro e di vita. La fabbrica ed il partito ci hanno fatto diventare uomini. L’ansaldino è una persona equilibrata, che non esagera mai, che ha forte il senso della dignità. Ho fatto il Consigliere regionale ma sono un operaio, un operaio del Muggiano.
La dignità di persone che non ce la facevano più.
Viene in mente Marx: in lui il concetto di classe operaia è innanzitutto frutto di una tensione emotiva e di una scelta di valore.

La fabbrica degli inizi degli anni Sessanta era una caserma autoritaria, che calpestava la dignità della persona.
Sergio Salvatori, uno dei “capi” degli operai della San Giorgio, racconta:
L’attività sindacale la facevo mentre lavoravo, correndo sempre il rischio delle sospensioni e del licenziamento. Giravo la fabbrica con dei motori sulla schiena, per giustificare il fatto che mi trovassi in un reparto diverso dal mio. Facevo colloqui con i lavoratori a tu per tu, o riunioni volanti al gabinetto. Dominava la paura.
Le condizioni di lavoro erano gravemente nocive per la salute.
Ecco un brano della testimonianza di Ovidio Iozzelli, operaio della Pertusola:
Quando passavano le cicale sopra lo stabilimento cadevano stecchite. Lavoravamo sostanze che ci faceva­no male agli occhi… Quando arrivava il vento ed alzava la polvere, dovevamo scappare per proteggerci. La pelle, quando ci facevamo la barba al mattino, ci bruciava. Negli anni Sessanta l’80% non arrivava alla pensione. Moriva prima dei sessant’anni per saturnismo, la malattia di chi sta esposto al piombo.
Pino Ricciardi, impiegato della San Giorgio, iscritto alla CISL, fu rimproverato dal Direttore con queste parole:
“Lei non deve pensare, deve lavorare, a pensare tocca a noi”. Questo fatto mi ferì profondamente: non dovevo pensare, non dovevo essere una persona. Fu la molla che mi fece impegnare nel sindacato.
Ma come spiegare la fabbrica caserma? Non solo con il fordismo, il calcolo dei ritmi di lavoro.
Va considerato anche che nel 1950-1951 c’era stata, anche e forse in particolare alla Spezia, la sconfitta dopo quella che fu chiamata “la Lotta”: licenziamenti, emigrazione, confinamento degli operai più combattivi, comunisti e socialisti.

Gli operai cominciarono a tornare protagonisti nel luglio 1960 – insieme ai giovani – nella lotta contro il governo Tambroni, che aveva avuto i voti del MSI, e contro la decisione di tenere il Congresso del MSI a Genova, città Medaglia d’oro della Resistenza.
Fu una “rottura storica”, che avviò una fase nuova.
Alla Spezia ci fu, nel 1961, ci fu la prima grande lotta operaia, quella del Muggiano, preparata nel 1960.
Dino Grassi:
Fu il primo sciopero unitario dopo la sconfitta e le divisioni degli anni Cinquanta. Per dieci anni non si era più visto uno sciopero a Spezia. Il Cantiere Muggiano e le fabbriche del gruppo Ansaldo furono le prime ad ottenere obiettivi che nel resto d’Italia si conquistarono nel 1969.
In termini di salario, diritti, salute.
Da quella lotta nacque il primo incontro nazionale operai – studenti.
Dopo il 1955 era cominciato il “ritorno in fabbrica” del sindacato.
Dopo la Liberazione e nei primi anni Cinquanta la contrattazione sindacale era fortemente centralizzata. Fu una scelta all’insegna della solidarietà tra i lavoratori. Ma un sistema contrattuale centralizzato finiva con il commisurare i salari sulle posizioni delle aziende più marginali. Il risultato fu che per oltre dieci anni i salari crebbero molto meno dei profitti.
Nelle fabbriche vigeva il cottimo: serviva a convogliare verso un aumento dell’intensità del lavoro la pressione operaia per l’aumento del salario.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta sia la CGIL che la CISL, entrambe in crisi, iniziarono un ripensamento strategico, che portò a costruire le rivendicazioni operaie a partire dalle concrete condizioni di lavoro in fabbrica. Ciò favorì la lenta ripresa del processo di unità sindacale.
Anche il progetto della CISL – relazioni industriali centrate su accordi integrativi aziendali subordinati all’andamento della produttività dell’azienda – non reggeva più.
Nel ripensamento della CISL fu decisiva la parte più avanzata, legata alla FIM e in particolare a quella di Milano, guidata da Pierre Carniti. A poco a poco si realizzò l’incontro tra due umanesimi: quello marxista e quello cristiano.
Il concetto di partecipazione fu un regalo della cultura cattolica a quella marxista.
Lo scambio più consistente fu tra classismo della CGIL e partecipazione/autonomismo della CISL.
La svolta nelle lotte ci fu dal 1960 al 1963, quando scoppiarono in tutta Italia vertenze rivendicative di fabbrica, gruppo o settore, rompendo la tregua tra un contratto nazionale e l’altro che era implicita nel sistema. La lotta del Muggiano del 1961 fu emblematica di questa nuova fase.
Iniziava così la “contrattazione articolata”, che comportava una maggiore partecipazione dei la­voratori all’elaborazione delle rivendicazioni e alle decisioni sulle lotte e quindi uno sviluppo della coscienza operaia.
Nel contratto dei metalmeccanici dell’industria di Stato del 1962 si riconosceva il diritto di contrattazione nelle aziende nelle materie dei premi di produzio­ne, dei cottimi… Il contratto dei metalmeccanici privati seguì a inizio 1963, con contenuti analoghi.
Non era ancora la “rottura” del 1968-1969, perché non era ancora presente il tema del “potere” del sindacato in fabbrica, ma i rapporti di forza si stavano evolvendo a favore dei lavoratori.
Queste lotte non erano motivate solo da condizioni economiche materiali ma anche da spinte di contenuto morale.
E’ impossibile capire la grande ondata del Sessantotto se non ci si richiama alla ricca elaborazione teorica del 1960-63.
Nel 1962 ci fu la grande e difficile lotta dei lavoratori della cantieristica, in cui fu impegnata solo la FIOM CGIL, in un settore in cui cominciava ad essere intrapresa una pro­fonda ristrutturazione. I lavoratori del Muggiano ne furono protagonisti. La battaglia divenne presto unitaria e caratterizzò tutto il decennio. Fu una difesa epica, che si concluse con il mantenimento del Cantiere, che per anni CEE, governo nazionale, IRI e Fincantieri volevano invece cancellare, o quantomeno fortemente ridimensionare.
Se Spezia è ancora città in parte industriale lo deve a quella lotta.

Nel 1964 ci fu la svolta della “congiuntura”, l’inizio della recessione produttiva, che fu prolungata ed utilizzata come mezzo di indebolimento del sindacato.
Ciò comportò una stasi delle lotte, che diventarono prevalentemente difensive, di difesa dell’occupazione.
Anche alla Spezia: non solo al Muggiano, dove nel 1965 si tennero scioperi e manifestazioni memorabili; ma anche, nel 1964-1965, allo Jutificio Montedison – che stava passando dalla produzione della juta a quella della plastica – con grandi lotte delle filandine; e, nel 1965, alla Ceramica Vaccari, in grave crisi perché la proprietà non capiva che era necessario rinnovare tecniche e prodotti. La Ceramica fu occupata tredici giorni. La lotta si concluse con un accordo positivo, anche grazie alle capacità del segretario dei chimici della CGIL, Giuseppe Montalti, per molti testimoni del libro il cervello migliore del sindacato in quegli anni (fu eletto segretario della CGIL nel 1969). L’occupazione fu accompagnata da un grande sostegno popolare.
Leggiamo la testimonianza di Maria Negroni, filandina dello Jutificio:
Da bambina andavo a Saltino di Vallombrosa, dove c’era la colonia per i figli dei dipendenti: pa­recchie delle mie amiche della colonia poi sono entrate in “filanda” come me. Tra Fossamastra e la “filanda” c’era una simbiosi. Il ricordo della prima volta è quello del rumore assordante: gli am­bienti enormi, vasti con file di telai e filatoi che quando entravano in funzione facevano un rumore tremendo. Era difficile comunicare, allora cantavamo. E poi il ricordo dell’odore acre e pungente della juta, che avevo già sentito addosso alla mamma.
Mi misero a lavorare alla plastica, erano gli anni in cui la fabbrica cambiava. Facevo in genere il turno dalle sei alle quattordici, poi andavo a studiare. Mi diplomai alle serali, segretaria d’azien­da. I capi ci controllavano per produrre, anche per andare in bagno ci contavano i minuti. In questi momenti capivo mia mamma, che quando rientrava dal lavoro mi diceva: “Maria, stai brava che sono tanto stanca”, ed io bambina vivace non la stavo a sentire. Quando facevo il turno serale, poi all’uscita ero stanca e stordita dal rumore. Nonostante il silenzio sentivo sempre il toc toc dei telai… Ma ero giovane e piena di risorse e di energie. Nella pausa pranzo si rideva, si scherza­va e si fumava: è lì che ho imparato a fumare. Nel turno serale, dalle quattordici alle ventidue, i capi andavano via verso le ventuno e quarantacinque… Ricordo che una ragazza di nome Sandra tirava fuori dalla borsa un giradischi e ballavamo il cha cha cha, io ballavo bene. Ogni domenica andavamo a ballare e ci divertivamo.
Questo è un brano della testimonianza di Aldo Segurotti, della Ceramica:
La proprietà cedette sui licenziamenti quando diventò consapevole che eravamo troppo forti: c’era stata una sottoscrizione popolare, la gente era solidale, la classe operaia era unita. Il direttore Iachetti mi disse: “Quando ho visto che mangiavate i tordei [i ravioli] in fabbrica ho capito che avevo perso la partita”.
Poi, sia allo Jutificio che alla Ceramica, arrivò la chiusura, a differenza del Muggiano.

Il 1966, anche grazie all’avvicinamento tra i sindacati, fu un anno di ripresa delle lotte. Soprattutto per il contratto dei metalmeccanici. Manifestazioni e scioperi scossero l’industria italiana fin da gennaio. Solo alla fine dell’anno venne firmato l’accordo, ritenuto insoddisfacente da molti lavoratori. I risultati salariali erano stati molto limitati, quasi irrisori se confrontati con la durata del conflitto. Fu una lotta dura e difficile che, comunque, salvaguardò l’autonomia contrattuale del sindacato e il suo cardine, la contrattazione nelle fabbriche, conquistata nel 1962-1963.
Ma, anche alla Spezia, non fu lo scoramento a prevalere, né tra i metalmeccanici dopo il contratto, né tra i lavoratori del Muggiano e delle altre fabbriche in crisi, nonostante le perduranti incertezze sul futuro. Per il Muggiano vi fu, nel 1966, la condanna alla chiusura da parte della Commissione Caron. Uno sciopero generale poi cancellato in extremis ottenne un supplemento di indagine. Ma l’esito, nel 1967, fu negativo: la riduzione del Muggiano a cantiere di riparazione era in realtà l’anticamera della chiusura.
Il 1967 a livello nazionale fu un anno di transizione, comunque caratterizzato positivamente dall’avvicinamento unitario tra i sindacati, sollecitato dalla spinta operaia di base.
Il 1968 e il 1969 sono considerati gli anni del grande risveglio della classe operaia. Ma La Spezia fece eccezione, perché già il 1967 fu un anno di grandi lotte: CGIL-CISL-UIL organizzarono, per la salvezza del Muggiano, il primo sciopero generale unitario del dopoguerra.
Non solo: a fine anno furono aperte vertenze in alcune fabbriche. Pino Ricciardi, nel frattempo sempre più impegnato nella FIM, racconta:
L’Autunno caldo cominciò nell’ul­tima fase del 1967, per esplodere nel biennio successivo.
Per capire la grande effervescenza di quegli anni bisogna riferirsi anche alla crisi del centrosinistra, l’alleanza tra DC, PSI, PSDI e PRI nata dopo la “rottura” del 1960. Il centrosinistra era ormai sempre più “moderato”, “immobile”, lontano dalla società. Ma aveva comunque aperto un varco, allargato la democrazia. Non solo era in corso l’avanzata operaia, ma stavano facendo irruzione anche soggetti sociali nuovi: gli studenti. Si era aperta una fase di movimento e si stava preparando la nuova “rottura storica”: il Sessantotto.

Il Sessantotto fu espressione della crisi profonda di egemonia del blocco dominante, che riguardò sia i giovani che i lavoratori. Il Sessantotto fu dunque giovanile e operaio: una caratteristica del Sessantotto italiano.
Bisognava affrontare, spiega Dino Grassi nel suo diario, i temi della condizione operaia nella nuova fase della meccanizzazione: non solo i salari, ma anche il crescente aumento dei ritmi, i cottimi, l’ambiente di lavoro, la sorveglianza autoritaria sui dipendenti, la mancanza di democrazia.
La ribellione operaia fu molto intensa, molto radicata nella critica della condizione materiale e della vita personale. Come la ribellione studentesca, se non di più.
Il Sessantotto operaio iniziò il 7 marzo, con lo sciopero delle pensioni indetto dalla sola CGIL, dopo la rivolta della base rispetto all’intesa con il governo firmata con CISL e UIL. Una cosa del genere non era mai successa in tutto il dopoguerra. Alla Spezia sfilò un lungo corteo, con molti iscritti a CISL e UIL. Fu l’ultimo sciopero non unitario.
Come scrisse Vittorio Foa: oltre i sindacati, i capitalisti e il governo c’è un quarto protagonista: la classe operaia che non sempre s’identifica nel sindacato.

A marzo ritornarono le lotte alla FIAT, dopo quattordici anni.
La lotta della Marzotto fu emblematica di un nuovo spirito. Gli operai risposero alla crescita dei ritmi di produzione con azioni spontanee di protesta. Il 19 aprile una manifestazione con 4 mila dimostranti, tra cui molte donne, marciò attraverso la città di Valdagno, e nella piazza principale venne tirata giù la statua del conte Gaetano Marzotto, il fondatore della dinastia tessile.
Il nuovo spirito portò alla lotta anche gli operai spezzini. Tra febbraio e marzo ci furono tre scioperi dei metalmeccanici. Nella prima parte dell’anno riprese la lotta all’Enel per l’assunzione negli elettrici degli edili che avevano costruito la Centrale; si aprì la vertenza alla Vaccari su occupazione, salario, salute, diritti; la lotta per la salvezza del Muggiano fu impostata su nuove basi. Spiega Dino Grassi:
Capimmo che la battaglia per il Cantiere doveva essere accompagnata da una nuova fase di lotta contro i bassi salari e l’ambiente di lavo­ro nocivo. Lanciammo la vertenza per l’adeguamento dei cottimi avevamo i cottimi più bassi di tutta l’industria navalmeccanica italiana e per il risanamento dell’ambiente di lavoro. La nostra parola d’ordine era “A uguale lavoro uguale salario”. La vertenza si chiuse nel 1968, fu il preludio dell’Autunno caldo.
Vi fu certamen­te la capacità, pur in un processo complesso e non scevro di errori, del sindacato, in primo luogo della CGIL, di interpretare la spinta operaia. Ma vi fu anche un forte spirito di lotta che proveniva dal basso. Le fabbriche erano cambiate. Era entrata una nuova generazione, con più donne, con la mente aperta alle trasformazioni del tempo, meno disposta ad accettare la fabbrica caserma. Leggiamo ancora Dino Grassi:
A volte gli operai erano più avanti del sindacato e del partito, che temevano non ci fossero le condizioni per vincere. Ma gli operai erano decisi, determinati, e ce la fecero sempre.
Volevano ritrovare il valore di essere persone.
Va ricordato che PCI e CGIL avevano toccato il minimo storico degli iscritti rispettivamente nel 1967 e nel 1968. La capacità di interpretare la spinta operaia, da parte del sindacato e poi anche del partito, invertì la tendenza.

Un elemento specifico fu l’osmosi tra la nuova e la vecchia generazione, tra i giovani arrabbiati, più colti, e i loro compagni più anziani, spesso sopravvissuti alla discriminazione degli anni Cinquanta.
Le contraddizioni di generazione e quelle di classe scoppiarono assieme e contemporaneamente e si mescolarono tra loro.
L’intreccio tra l’azione dei padri e quella dei figli fu anche all’insegna della “memoria di classe”.
I figli intendevano farsi carico dei sogni non realizzati dai padri.
Vale in generale, vale ancor più nella fabbrica.
Franco Tronfi, giovane operaio dell’OTO Melara, così racconta i primi scioperi all’OTO Melara, a diciotto anni dalla sconfitta nella “lotta” del 1950-1951:
La polizia ci aspettava in via Valdilocchi, credendo che facessimo il percorso più breve, quello di viale San Bartolomeo. Invece passammo dall’Aurelia. Volevamo andare a Migliarina, nel quartiere operaio dove vivevano gli operai licenziati dopo la “Lotta” degli anni Cinquanta, i familiari dei tanti che erano dovuti emigrare all’estero. La gente piangeva commossa ai lati della strada.
Quei cortei che passavano da Migliarina curavano le ferite dell’emigrazione all’estero degli operai licenziati nel 1950-1951: il Sessantotto operaio aveva anche radici lontane.
Non aveva ragione Marx quando diceva che le rivoluzioni non traggono la loro poesia dal passato. Aveva ragione invece Walter Benjamin: il loro motore segreto è in un desiderio di redenzione dei vinti, in un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra.

La comunità operaia spezzina era definitivamente uscita dalla difensiva e dalla sconfitta degli anni Cinquanta; più giovane, più colta, spingeva dal basso, decisa e determinata, per “dire la sua” e per una nuova unità sindacale.
La determinazione, che derivava da una condizione operaia insopportabile, fu alla radice delle grandi lotte, alla Spezia e in Italia, che si svilupparono dal luglio 1968 e poi per lunghi mesi, fino all’Autunno caldo del 1969. Fu il più ampio movimento sociale mai nato in Italia.
I sindacati seppero “cavalcare la tigre”.
Ci furono innovazioni importanti nella struttura sindacale: i consigli.
La capacità di recupero si realizzò attraverso una linea di fedeltà, anziché di contrapposizione, rispetto alla spinta operaia.
Nel 1968-1969 ci fu una relativa specificità del sindacalismo italiano nel mondo. La fusione nella lotta fra la nuova e giovane classe operaia e la vecchia classe fu più facile che altrove. La vecchia classe operaia aveva sperimentato una durissima repressione e l’autocritica delle sue avanguardie favorì il collegamento con le forze nuove su un terreno di lotta. Il sindacalismo italiano aveva inoltre una forte tradizione di vita interna democratica, come disponibilità al nuovo, come capacità di collegamento e come legame con le masse.
L’Autunno caldo conquistò la più secca redistribuzione sociale di reddito, poteri e diritti mai avvenuta nella storia repubblicana.

Poi iniziò la lotta per le riforme e gli investimenti. Furono ottenute conquiste importanti – si pensi, per fare un solo esempio, alla riforma sanitaria – ma non fu possibile raggiungere risultati complessivamente, e nel lungo periodo, positivi.
Ci fu la difficoltà a instaurare una contrattazione che passava dalla fabbrica alla società. Ma ci fu qualcosa di più.
Allo scacco – che si verificò nei primi anni Settanta – ho dato un nome, quello di sconfitta del Sessantotto degli inizi, libertario ed etico: una sconfitta che coincise con la ripresa dei vecchi strumenti organizzativi e delle vecchie nozioni, delle vecchie dottrine. Il Sessantotto studentesco rifluì nelle vecchie idee contro cui si era battuto. Nacque l’estremismo.
Il Sessantotto operaio virò verso la società dei consumi, l’integrazione dei modelli di vita e di consumo borghesi. Del resto la società dei consumi aveva anche aspetti positivi, portò anche libertà.
Dall’altro lato, va detto che le pulsioni vitali del movimento non riuscirono a entrare nel patrimonio genetico delle varie forze politiche. Tutte le culture politiche, nel medio periodo, fallirono. Anche quella sindacale.
Va aggiunto che le forze dominanti reagirono con grande intelligenza – neoliberismo, decisionismo, decentramento produttivo; e che ebbero un ruolo anche altri attori politici, relegati nel “sommerso della Repubblica”: lo stragismo.
Tutto ciò fece sì che il sogno di una generazione, studentesca e operaia, venisse spezzato.
E’ vero – lo ripeto – che la “rivolta etica” di un movimento che voleva essere rivoluzionario fu agente di riforme di notevole portata, sia pure non inquadrate in un progetto politico unitario. Ma già alla fine degli anni Settanta furono abbandonate, e cominciò l’egemonia di un altro pensiero, di un’altra idea della modernizzazione: quella liberista.
Gli anni Settanta, frutto dei processi vincenti negli anni Sessanta, furono progressivamente sconfitti dai processi definitivamente vincenti negli anni Ottanta.

Il 1980 fu l’anno della sconfitta alla Fiat: l’“Autunno freddo”.
Emblematica fu poi la sconfitta del PCI nel referendum del 1984, e la rottura dell’unità sindacale che caratterizzò quella vicenda.
Il proletariato da produttore collettivo diventò a poco a poco consumatore individuale: un mutamento antropologico.
Nel contempo ci fu il declino del sindacato come soggetto politico.
Il sindacato divenne, da forza della società, forza istituzionale. Ma non ci fu una istituzionalizzazione “in grande”. Semmai di basso profilo: senza rapporto sociale, se non nella sfera dei servizi.

Il mondo del lavoro è cambiato e cambierà profondamente. Varierà di forme di impiego, di livelli retributivi, di orari, di configurazione di luoghi di lavoro, di situazioni assicurative e pensionistiche. Ci saranno differenze tra lavoratori della conoscenza e operai. Sta crescendo la sofferenza psichica di chi sta in basso e sente di valere poco. E in politica cerca sempre il nuovo. L’unità del mondo del lavoro è sempre stata una costruzione culturale, sociale, politica. L’attore allegorico classe operaia o movimento operaio è sempre stato una costruzione ideologica, creata dal basso e dall’alto. Il lavoro, ogni lavoro, cioè l’attività vitale di ogni uomo, ha ancora la connotazione di merce: è ciò che mette in relazione tra loro tutti i lavori e spinge alla loro unificazione. La base della costruzione dell’unità del mondo del lavoro è innanzitutto questa.
La nuova costruzione deve dare valore economico e sociale a tutti i lavori, così diversi ma tutti mercificati. Deve accelerare il processo di valorizzazione del lavoro umano, un percorso di libertà del lavoro – come diceva Bruno Trentin – non dal lavoro. Deve prospettare un nuovo senso della vita, una nuova moralità.
Così come ci fu un rapporto tra lotte degli anni Cinquanta e Sessantotto, e tra “biennio rosso” 1919-1920, Resistenza e Sessantotto, oggi dobbiamo vedere il rapporto tra il Sessantotto e noi, dobbiamo cogliere la virtualità generatrice di futuro di alcune idee del Sessantotto, i lasciti che ci sono ancora, come potenzialità attuali.
L’immagine di una libertà perduta resta viva nel lavoro. La libertà del lavoro, la ricerca di un nuovo senso della vita, sono un faro per il futuro.
La società consumistica, nei suoi aspetti positivi come in quelli perversi, non ci è stata imposta dal capitalismo, è anche opera nostra. E quindi è possibile contrastarla, non è una fatalità ineluttabile. Se si getta tutta la responsabilità di un male presente sull’avversario si è già rinunciato al proposito di combatterlo.

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